In tre edizioni, il Dong Film Fest di Torino, unica finestra italiana sul cinema indipendente cinese, ha ricevuto dagli assessorati alla cultura della città e della regione soltanto silenzi e patrocini a costo zero. Identico il discorso per gli sponsor. A dispetto di ciò, mettendoci economicamente del loro, Zelia Zbogar e Giulia Carbone, con un gruppo di altrettanto irriducibili collaboratori, sono riuscite a costruire una rassegna cinematografica che ogni anno racconta al pubblico una Cina altrimenti inimmaginabile. Nel 2017, tema unificante il mondo rurale, luoghi, vicende, personaggi erano stati evocatori di realtà drammatiche; avevano materializzato i fantasmi di solitudini perdute nel nulla, i sogni impossibili dei giovani, la silenziosa disperazione dei vecchi. Il Dong 2018, concluso la scorsa domenica, ha spostato il proprio sguardo dalle campagne alle metropoli: Pechino e Shangai, accanto ad anonimi universi urbani. Carbone «Rispetto alla scorsa edizione volevamo portare al pubblico qualcosa di più leggero, ma non meno significativo. Abbiamo deciso, poi, di lasciarci guidare maggiormente dalle suggestioni dei film scoperti durante i vari festival. Partendo da due capisaldi, Have a nice Day e Girls always happy, visti alla Berlinale, siamo arrivate a comporre la cinquina dei titoli in concorso. Sono film potenti, ironici, brillanti, che si esprimono in un linguaggio formale più vicino a quello dello spettatore italiano e perciò più fruibile. È in quest’ottica che va letto l’aggettivo ‘leggero’». Una madre e una figlia unite dall’ambizione di diventare scrittrici (Girls always happy), un ingegnere che in una scuola abbandonata trova nelle pagine di un diario strane coincidenze con la sua vita (Suburban birds), le tre diverse identità assunte da una donna in viaggio verso la Malaysia (Three adventures of brooke), la lotta a colpi pesanti per il possesso di una borsa zeppa di un milione di yen (Have a nice day), l’intreccio di cinque personaggi sullo sfondo di migliaia di maiali morti trascinati dalle acque del fiume di Shangai (Dead pigs). Ed è stato proprio Dead pigs, della regista Cathi Yan, Premio speciale della giuria all’ultimo Sundance Festival, a vincere. Basati su una storia vera, i centotrenta minuti colpiscono con strali appuntiti la Cina ossessionata dal mito dello status sociale e di un malinteso concetto di progresso. Settantasette i minuti di Have a nice day, di Liu Jian, realizzati in animazione come i ventidue (fuori concorso) di Chinamen, dei milanesi Ciaj Rocchi e Matteo Demonte. Non una semplice coincidenza, ma la prosecuzione di un dialogo aperto da Visioni Contemporanee, rassegna a cura del Dong, che si è svolta a Shangai dal 13 al 17 ottobre. Sette film italiani, tra i quali svariate opere prime di giovani registi, proiettati, ricorda Zelia, «Davanti a un pubblico mediamente di duecento persone, piccoli numeri per la Cina, ma importanti guardando alla particolarità dell’iniziativa. Siamo rimasti stupiti dalle domande di spettatori che si confrontavano con il cinema di un paese completamente diverso dal loro e senza avere riferimenti culturali propri». Nel 1931, il nonno di Matteo Demonte è l’ottantanovesimo cinese ad arrivare in Italia. Proviene dallo Zhe Jiang, si stabilisce a Milano tra via Canonica e via Paolo Sarpi, dove altri suoi compatrioti sono già andati a vivere, primi abitanti della futura Chinatown meneghina «Nel 2015, con Ciaj, trasformammo la storia piccolo borghese di mio nonno in una graphic novel, Primavera e Autunni, pubblicata da Becco Giallo. Fu mia nonna, un’italiana, a lasciarmene in eredità la memoria. Il libro ha fatto da apripista a Chinamen. Un secolo di cinesi a Milano, mostra, graphic novel e film di animazione. Un progetto voluto dall’assessorato alla cultura del comune con l’obbiettivo di raccontare le dieci famiglie cinesi fondamentali nel passaggio dal primo flusso migratorio, quello di cui fece parte mio nonno, al secondo, che prese avvio dagli anni ’80 in poi». Poco meno di un secolo di storia in ventidue minuti di grande piacevolezza narrativa. ‘Un thriller viscerale’, secondo il sito inglese di cinema Screen Daily. ‘Come se Tarantino avesse rifatto Pulp Fiction in versione animata’, così l’autorevolissima rivista on line americana IndieWire. Sono due dei tanti giudizi lusinghieri tributati a Have a nice day, miglior film di animazione secondo i giurati del Golden Horse Awards 2017, Taiwan; tra i venticinque titoli della stessa categoria, selezionati per entrare nella cinquina degli Oscar 2019. Il pugno ferreo della patria censura non ha risparmiato l’opera di Jian, costretta al ritiro dal festival di Annecy perché sprovvista dell’autorizzazione governativa a comparire in una manifestazione internazionale, e sottoposta a tagli del sonoro nella versione per le sale cinesi. Secondo titolo del regista dopo Piercing (2010), Have a nice day ha trovato un produttore quando gran parte del lavoro, durato sette anni, era già stato realizzato. Ambientata nelle periferie di una città anonima, la caccia al tesoro da un milione di yen passa attraverso lo squallore di negozi, bettole, internet point; imbocca strade deserte, torna e ritorna alla tristezza della stanza 301 di un hotel miserabile. È una caccia al tesoro innescata dal furto della ricca borsa per mano di Xiao Zhang, autista di una banda di criminali. Perché osare tanto? La risposta rivela il sorriso beffardo, intinto nel noir, che Jian rivolge al regime: Xiao ha bisogno di soldi per pagare un’operazione di chirurgia plastica alla fidanzata. La galleria dell’assurdo prosegue con il killer assoldato dal boss per recuperare i soldi e uccidere l’autista traditore. Mentre sta per calare la mannaia, il cellullare squilla. Senza scomporsi, il killer risponde ‘Non sono interessato a investimenti immobiliari’, l’attimo di distrazione gli costerà la vita. Quanto al prezzo della vera libertà, medita un anziano, è quello del cibo comprato al mercato dei contadini, al supermarket e on line. E di Mao cosa resta? La faccia stampata sulle mazzette di banconote bagnate dalla pioggia, nell’immagine su cui tramonta il nice day.