Pesa da sempre, su Alfredo Pirri, una taccia ominosa: quella di artista-intellettuale. Se la sua generazione (è nato a Cosenza nel 1957) ha ideologizzato una «leggerezza» spesso tradottasi in auto-indulgenza, Pirri s’è invece sempre ostinato a ragionare sul «posto» dell’espressione artistica nel nostro tempo. Forse proprio venire da una periferia del «sistema dell’arte» lo ha spinto a combattere per affermare, prima che se stesso, le sue idee. Ad Angelandreina Rorro ha raccontato come nel ’73, sedicenne, tutti i sabati s’imbarcasse su un accelerato notturno per tornare a Contemporanea, la mostra rivoluzionaria allestita da Achille Bonito Oliva nel parcheggio di Villa Borghese. Forse da lì è nata pure un’altra sua ossessione, per gli spazi dell’architettura.

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PER PIRRI QUELLO dell’immagine è sempre un progetto, un’idea. Ma non solo: altrimenti resterebbe un modernista fuori tempo massimo. Non meno decisiva dev’essere stata, nell’82, l’esperienza con Krypton, le scene dell’Eneide di Giancarlo Cauteruccio, big bang del postmodernismo non solo teatrale di quegli anni.
Alla grande antologica I pesci non portano fucili, curata da Benedetta Carpi De Resmini e Ludovico Pratesi al Macro Testaccio (visitabile fino a settembre) – a conclusione di un percorso iniziato presso la Nomas Foundation – dà il titolo un’immagine da Divina invasione di Philip K. Dick, una società disarmata e fluida come il mare aperto. E davvero l’allestimento romano compone una dialettica fra i limiti strutturali dello spazio e il libero fluire dell’immaginario in un contesto reinventato: metafora viva di un ripensamento delle forme di esistenza in comune. Come dice Pirri a Hou Hanru (in una bella conversazione in catalogo), il «ruolo politico» dell’artista consiste nell’essere «un ponte che serve per trasferirci da una parte all’altra, da un mondo materiale verso un mondo immateriale, o viceversa».

Il passaggio è segnato, in mostra, dal lavoro più conosciuto di Pirri, concepito nel 2003 (e di recente rimosso, con decisione discussa, dall’atrio della Galleria nazionale d’arte moderna): Passi s’intitola il pavimento di specchi che calpestiamo per transitare dall’uno all’altro spazio espositivo, fra loro separati da pareti di metallo e cemento. Al peso della struttura si contrappone, così, la leggerezza cui, nel percorrerla, siamo tenuti: sulla fragile superficie nella quale vediamo riflessa, capovolta, la nostra stessa fragilità.

DA QUESTA DIALETTICA fra peso e leggerezza viene esaltata, del lavoro di Pirri, una dimensione che prima sottovalutavo: il riverbero del colore. Già i primi lavori maturi, le Squadre Plastiche dell’87 – nere superfici rettangolari di un apparente minimalismo duro e puro – sono distanziate dalle pareti da un telaio di colori luminosi, in modo che questi si riflettano all’esterno, circondandole di un’aura sottile e radiosa.
Quest’uso mediato del colore torna nella serie di lavori, inaugurati nel 2006 da Le jardin féerique, nei quali delle piume (vero emblema della leggerezza) sono dipinte su superfici trasparenti, come a voler dissolvere la materia in colore. Bellissimi, pure, i non meno spettrali «paesaggi» di Verso N (2002): nei quali l’aura cromatica si proietta «dietro» il profilo di immaginarie catene montuose ritagliate su cartone e plexiglas.

MA FORSE L’APICE di questo percorso di Pirri al di là della materia va indicato nella Stanza di Penna: un lavoro del ’99 collocato nell’ultima sala, la più isolata e intima. Ispirandosi all’immagine memorabile di Sandro Penna, ripreso da Mario Schifano (in Umano Non Umano, 1969) nella sua stanzetta colma di libri e quadri, Pirri ha concepito uno spazio con cento piccoli libri che ci rivolgono i loro dorsi; alle loro spalle si riverbera nello spazio, ancora una volta, l’ombra del colore. Visti dall’alto, i libri sembrano edifici di una città: metafora, sottile quanto decisa, di una società rivoluzionata dalla poesia.