La vigilia delle elezioni politiche e presidenziali che si svolgeranno oggi in Bolivia ricorda in modo preoccupante il clima che portò un anno fa al golpe e alla cacciata del presidente Evo Morales. L’ultimo sondaggio pubblicato due giorni fa dall’istituto Ciesmori dava per favorito Luis Arce, candidato del Movimento al socialismo (Mas, fondato da Morales) col 42% seguito dai due candidati della destra golpista, Carlos Mesa (Comunidad ciudadana) col 33,1% e da Fernando Camacho ( Alianza Creemos) col 16,7. Cifre che potrebbero assicurare la vittoria al primo turno del Mas. Ma il condizionale è di rigore di fronte a un clima di violenza, di intimidazioni internazionali e denunce mediatiche che rende difficile credere che la guida delle Bolivia verrà restituita pacificamente al Mas, dopo un anno di potere – fallimentare nei confronti del Covid-19 , ma funzionale al tentativo di smantellare mediante privatizzazioni le conquiste sociali ed econimiche del governo Morales – gestito dalla golpista Jeanine Añez.

La Bolivia rappresenta un paese cruciale per gli equilibri del l’America latina. Per le grandi ricchezze di materie prime – gas e litio soprattutto – e per evidenti ragioni geostrategiche – al centro del continente e in prossimità di grandi bacini (anche sotterranei) di acqua dolce. Ma anche perché lo Stato plurinazionale voluto da Morales prevede molteplici diritti costituzionali per i popoli indigeni originali: autogoverno nei loro territori, la sicurezza che vivano in un ambiente sano riconoscendo loro la gestione autonoma ed esclusiva delle risorse naturali rinnovabili e il controllo sulle fonti di acqua.

È un esempio al quale, nonostante limiti e incompiutezze, guardano molti popoli indigeni e comunità contadine di base dell’America latina.

Si tratta infatti di un controllo dal basso del territorio che contrasta e mette potenzialmente in pericolo la «terapia di shock» estrattivista che le grandi compagnie, per la gran maggioranza multinazionali, hanno messo in opera in concomitanza col diffondersi della pandemia del coronavirus.

Per Raúl Zibechi e vari analisti e intellettuali di sinistra latinoamericani, la pandemia si presenta come la crisi perfetta per giustificare lo stato di eccezione, ovvero la sospensione dei fragili spazi di contropotere creati in buona parte da popoli originari e organizzazioni contadine di base, che «rappresentano quel poco di democrazia dal basso che esiste nei nostri sistemi politici» latinoamericani, afferma l’analista Thomas Chiasson Lebel.

La terapia di shock estrattivista si articola «attorno a un discorso nel quale le imprese si presentano come “salvatrici” del paese», sia di fronte alla crisi sanitaria (offrendo fondi per acquisto medicinali) sia alla crisi economica, mettendo in campo capitali, purché vengano concessi loro dai governi nuovi territori in modo da espandere le attività estrattive e debilitare o eliminare i controlli ambientali esistenti. E soprattutto perché venga repressa ogni attività di resistenza popolare.
I governi dei paesi che rappresentano la spina dorsale della destra latinoamericana alleata, succube agli Stati uniti, hanno aderito prontamente a tali richieste.

Nel Brasile di Bolsonaro, il ministro dell’ambiente, Ricardo Salles, ha affermato che bisogna approfittare dell’attenzione mediatica data al Covid-19 «per approvare tutte le riforme infralegali (sic) ma necessarie» che limitino regole in materia ambientale. In Cile il ministro delle miniere ha sostenuto che è tempo far avanzare tutti i progetti previsti, frenati fino a oggi per questioni ambientali e dalla resistenza comunitaria, soprattutto in territorio Mapuche. Il suo collega dell’Ecuador ha affermato all’inizio della pandemia che avrebbe concesso a imprese private condizioni più favorevoli per progetti petroliferi in zone abitate da comunità originali.

Ancor più drammatica la situazione in Colombia dove nelle ultime settimane sono state denunciati 35 matanzas (massacri) in dipartimenti come il Cauca, dove i popoli raggruppati nel Consiglio regionale indigeno attuano una tenace resistenza di fronte all’estrattivismo – sono state recuperate 16 fincas e posti sotto controllo popolare 26.200 pozzi d’acqua e 123 lagune naturali. Ma in poco meno della metà del territorio del Cauca sono in corso prospezioni petrolifere e per la ricerca di vari metalli.

Il prossimo passo è che l’organizzazione e la mobilitazione delle comunità riesca a trasformare i settori popolari in una forza capace di contrastare l’alleanza tra le élites e le imprese estrattiviste. E di dimostare la falsità della tesi che l’estrattivismo è diventato un’ industria «virtuosa, inclusiva e sostenibile», che permette di vincere le pandemie. Un passo più difficile da compiere senza la vittoria del Mas e la prosecuzione dello Stato plurinazionale in Bolivia.