Mancano pochi mesi al centenario della nascita di uno dei musicisti e compositori jazz più grandi. Malato di SLA, ormai incapace di suonare, Charles Mingus si spense in Messico nel 1979. La moglie Sue, come si racconta in alcune tra le più evocative tavole di Mingus (Coconino Press), il graphic novel scritto da Flavio Massarutto e disegnato da Squaz, ne disperse le ceneri nel fiume Gange, come lui aveva richiesto. Abbiamo parlato con gli autori, cercando di capire come hanno lavorato sul volume, realizzato in collaborazione con il Circolo Culturale Controtempo e il PAFF!-Palazzo Arti Fumetto Friuli, dove sabato 18 Settembre verrà inaugurata la mostra con le tavole originali.

Da anni ti occupi di jazz come critico e spesso hai riflettuto con i tuoi libri sul rapporto tra jazz e fumetto. Come avviene la scelta di scrivere una biografia a fumetti di Charles Mingus? Come approda sul tavolo di Squaz?
Una decina di anni fa ho scritto un fumetto dal titolo Visioni, poi pubblicato nel mio libro Assoli di china edito da Stampa Alternativa, disegnato da Davide Toffolo. Era una storia a episodi, ognuno dei quali dedicati a un musicista: uno di questi era Mingus. Sul finire del 2019 ho ripreso quella sceneggiatura, cambiandola e ampliandola; ho scritto un altro episodio e mi sono reso conto che avevo già in testa un libro intero. Naturalmente avevo ben presente Mingus perché se scrivi di jazz è un musicista imprescindibile. Ho un legame particolare con lui perché per me la musica di Mingus è l’essenza stessa del jazz, è tra i musicisti che riascolto più spesso, insieme a Duke Ellington. Dopo sei mesi di ricerche, scritture e riscritture la sceneggiatura era pronta; volevo un segno che fosse fisico e selvatico, che avesse una attitudine punk. Per me il segno nel fumetto è come il suono nel jazz, è la base di tutto; anche per come interpreta e gestisce lo spazio della tavola Squaz era il disegnatore ideale. Sono stato fortunato perché mi ha detto di sì.

La personalità di Mingus è non solo alla base del suo genio, ma anche del suo modus operandi musicale come lui stesso spiega al critico Nat Hentoff. Chiarisce come convivano tre persone in lui, qua in una sequenza in cui le sbarre del cancello della clinica psichiatrica dove va a chiedere aiuto diventano le corde del contrabbasso. Nota anche la sua irascibilità, il completo rifiuto a scendere a compromessi. Quanto la complessità del personaggio contribuisce al mito e come si recupera la dimensione umana e la caratura artistica di Mingus nel vostro lavoro?
F. M.: Scrivere una biografia di un personaggio così gigantesco, in tutti i sensi, è una sfida da far tremare i polsi. Per la grandezza della sua musica e per la forza della mitologia che lo avvolge. Io però ho cercato di liberarlo da tutti i luoghi comuni della tipica aneddotica sul jazzista. Mingus era un uomo complesso e contraddittorio, ma era soprattutto un artista e un intellettuale. Una persona che viveva il suo tempo e che aveva deciso di non accettare ciò il destino che gli aveva riservato. Ha combattuto per tutta la vita senza smettere mai, cadendo e rialzandosi sempre. Perciò ho cercato di recuperare soprattutto questa dimensione anziché enfatizzare i tanti episodi che ne trasmettono l’immagine del personaggio rissoso.

Squaz: In effetti è un rischio che si corre con tutti i personaggi «larger than life» e quella di Mingus è stata una parabola tutt’altro che pacificata. Credo di aver affrontato la sua vicenda recuperandone lo spirito: dove lui rispondeva al critico musicale «Io suono Mingus», potrei a mia volta rispondere «Io ho disegnato Squaz».

Avete lavorato con una bibliografia copiosa, riferita alla vita e all’altrettanto ricca produzione musicale di Mingus; come avete combinato aneddoti, storia musicale e ricerca iconografica? Perché il racconto si snoda in senso non strettamente cronologico?
F.M.: La vita di Mingus è talmente ricca che di spunti ne offre a centinaia e devo ammettere che ho dovuto fare una scelta. Credo che il fumetto abbia un suo linguaggio e che se scrivi una storia a fumetti devi cercare di sfruttare al massimo questo linguaggio. Perciò c’è questo continuo spostarsi tra Storia e invenzione, tra uso delle fonti e improvvise fughe visionarie. Volevo che ci fosse aderenza alla realtà ma anche una visione personale, la mia visione. Il capitolo Eclipse è perfettamente plausibile perché è rigorosamente documentato ma è completamente inventato. Per quanto riguarda una certa dimensione onirica, gli inserti e i salti temporali devo confessare che non sono progettati. Semplicemente li ho visti così. Quando immagino una scena la immagino sempre prima visivamente.

Squaz: La sceneggiatura di Flavio mi è stata di grandissimo aiuto, in questo. Era doveroso e scontato fare ricerche per mantenere aderenza alla storia, ma non fino al punto da risultare pedanti. E le parti più visionarie per me sono state come ossigeno.

Squaz, disegnare la musica è sempre una grande sfida, nella quale ti difendi benissimo. Penso, un esempio su tutti, alla sequenza dello storico concerto di Antibes: posizione e dimensione della vignetta, montaggio, colori, a quale elemento ti sei affidato maggiormente o quale degli aspetti costituenti del fumetto lo rende così appropriato per raccontare la musica?
Mi sono affidato all’orecchio. Inteso come orecchio musicale, appunto. Sembrerà strano detto da un fumettista, ma la musica è sempre stata una grande influenza per me e la mia ricerca grafica e narrativa sarebbe stata ben poca cosa senza le migliaia di ore di ascolti. Il fumetto è un codice fatto di relazioni e la sua musicalità è data dal modo in cui si sceglie di mettere in relazione le immagini e le parole o anche le sole immagini tra di loro. Detto questo, non sono così sicuro che sia intrinsecamente più adatto di altri linguaggi a raccontare la musica. Se lo è, probabilmente lo è più che altro per motivi contingenti, come nell’associazione tra rock e fumetto o, in questo caso, con il jazz. Ma funzionerebbe altrettanto bene con la musica sacra? O con la musica indiana? O con qualsiasi altra musica al di fuori degli schemi della società dei consumi?

Nelle tavole dedicate alle cover degli album ti prendi libertà grafiche che derivano dal tuo personale ascolto della musica di Mingus? Cosa ti ha più colpito della sua traiettoria?
Si tratta di reinterpretazioni su precise indicazioni di Flavio. In quel caso, è tutta farina del suo sacco. Quello che trovo affascinante nella sua musica è la combinazione di passione e rigore, di struttura e libertà, cosa niente affatto scontata. Siamo su un territorio diverso da quello del «free-jazz» dello stesso periodo, è un approccio più maturo e riflessivo. E per me rappresenta proprio la congiunzione tra l’anima bianca e l’anima nera. Politicamente, ci dice che l’integrazione non solo è possibile ma rende la società migliore di prima.

La visione umana espressa in «Pithecantropus erectus» è tristemente attuale e anche per questo preziosa, poiché formalizzata alla fine degli anni ’50. A questo movimento in 4 tempi che riguarda la storia dell’umanità avete dedicato sequenze a parte. Mi sembra che Mingus per quanto spirituale, avesse una visione molto concreta e razionale della nostra esistenza sulla terra. Pensate che la sofferenza per la discriminazione razziale, sempre denunciata pubblicamente dal musicista, abbia influito in questa visione globale?
F.M.: La questione del razzismo è centrale e infatti ricorre più volte ma non è esclusiva. Mingus è un intellettuale che si è formato nell’ambiente culturale californiano dove è nata la beat generation per la quale era imperativo realizzare sé stessi attraverso l’esperienza. Fare esperienza delle cose, dei luoghi, delle persone, del proprio corpo. E il razzismo impedisce l’esperienza delle e tra le persone. Mingus reagisce a questo con tutta la forza che ha e in quella suite dimostra di avere una visione umanistica che sa andare oltre la dimensione razziale. Uno sguardo di amore nei confronti dell’uomo. La sofferenza e l’indignazione che nascono dall’amore.

Squaz: Il razzismo è un corollario dell’atteggiamento predatorio dell’uomo sui suoi simili e sulla Terra stessa. Partendo dalla questione razziale si arriva anche al resto. Ed è irritante vedere come troppo spesso di questi tempi si affronti il razzismo senza mettere in discussione la cornice nella quale si esplica, come se si trattasse di comportamenti individuali da correggere. Mi piacerebbe proprio vedere come reagirebbe Mingus oggi.