Al Teatro alla Scala è in scena in questi giorni (repliche fino al 21 luglio) Le Comte Ory, penultima opera di Gioacchino Rossini, che Damien Colas, curatore dell’edizione critica presentata per la prima volta a Milano, ha definito «Don Giovanni alla francese». Le pur copiose donnesche imprese del protagonista nei versi del principe dei librettisti francesi Eugène Scribe e nella partitura di Rossini si risolvono in un trama giocosa di allusioni e sottigliezze che dà all’opera l’aspetto di una ironicissima pochade, zeppa di sottintesi morali e di costume, basata su un intreccio ricco di situazioni farsesche, colpi di scena e travestimenti , ma anche avvolto in un’aura di ambiguità e mistero.

Nulla di tutto questo resta nell’allestimento di Laurent Pelly, che si è occupato della regia, delle scene e dei costumi, mentre le luci sono di Joël Adam: messo in scena per la prima volta lo scorso febbraio a Lione e per l’occasione ripreso da Christian Räth, lo spettacolo è tutto proteso a cercare la buffoneria corriva del vaudeville piuttosto che l’ethos ironico dell’opera comica.
Pelly ha dichiarato di avere realizzato una trasposizione onirica del libretto, ma, come spesso accade, tra le note ufficiali di regia e lo spettacolo non c’è alcuna connessione. Il primo atto è indifendibile: in una specie di sala polivalente da oratorio una folla di creduloni si fa plagiare dal conte travestito da guru indiano stile Sai Baba, con movimenti scenici rozzi e generici come fossimo in una recita scolastica. Più accattivante il secondo atto, ambientato in un interno borghese, con un movimento laterale della scenografia continuo e fluido, si direbbe cinematografico, dalla cucina al salone alla stanza da letto al bagno.

Hanno destato un brivido di scalpore la scena di Adèle seduta sul water e l’amplesso a tre Adèle-Ory-Isolier; ha molto divertito il pubblico l’ubriacatura delle finte monache. Donato Renzetti onora le innovazioni timbriche sperimentate da Rossini con gli ottoni alla ricerca di colori scuri inediti nella sua produzione precedente, ma dirige con mano talvolta greve (forse all’inseguimento delle grevità della messa in scena), poco propensa a suggerire ai cantanti alcun chiaroscuro, soprattutto nel gioco dei rimandi tra malinconia sospirosa e trasporto sensuale. I due finali sono precipitosi e monocordi, senza che i rispettivi crescendo suscitino all’ascolto lo stupore del passaggio graduale dal piano al forte. La tempesta mette in sordina il cromatismo degli sforzandi degli archi e i trilli dei flauti.

I cantanti si prestano con divertita disinvoltura al gioco scenico. Le scritture vocali sono vertiginose e richiedono capacità tecniche eccezionali: il conte è sì tenore, ma la sua vocalità è fiorita, di agilità e i suoi modi leziosi, come fosse un soprano; la parte di Adèle è un arabesco di roulades, scale, appoggiature, picchiettati, ornamenti di slancio, trilli, portamenti e glissandi.

Colin Lee, che dopo la prima recita sostituisce Juan Diego Flórez, afflitto da una persistente tracheite, sfoggia una voce poco timbrata ma morbida, acuti un po’ flebili ma centrati, falsetti musicali, ma soprattutto generosità attoriale che sopperisce ai limiti vocali. Anche Aleksandra Kurzak dà tutta se stessa in scena, è una buona virtuosa, ma le manca disinvoltura negli acuti, spesso urlati o sgradevolmente fissi, e un’emissione omogenea nei vari registri. Stéphane Degout e Roberto Tagliavini sfoggiano voci corpose; José Maria Lo Monaco volume contenuto e un fraseggio brioso.