E così andiamo verso l’ennesima elezione politica con il capo di un partito, e possibile leader di una coalizione, proprietario di 3 delle 7 reti generaliste e di una ventina tra i canali digitali free e pay. Un impero che non ha eguali negli altri paesi (europei e non solo).

Si può parlare nuovamente, come è stato fatto in queste settimane, di conflitto d’interessi (leggi Boschi o Grasso), ma a condizione di non dimenticare l’originale, il vero conflitto d’interessi che da un quarto di secolo stringe la democrazia italiana in un angolo.

Un conflitto al quale a sinistra non guarda più nessuno. Chi, più anziano, per non sentirsi ricordare le colpe del passato quando rinunciò, in nome di una realpolitik esiziale, a normare il duopolio Rai-Mediaset; chi, più giovane, per avere furbescamente dismesso, dopo le annunciate rottamazioni, qualsiasi ipotesi di cambiamento nel sistema; chi, infine, perché convinto che il problema sia cancellato dall’avvento del digitale e/o magari dal declino dell’imprenditore politico-televisivo.

Un abbaglio colossale, quest’ultimo. L’ennesimo. Come dimostrano i fatti e poche, incontestabili, verità. La prima è che le tv (generaliste e non) di Raiset la fanno da padrone sul resto delle reti digitali, raccogliendo oltre il 50% del pubblico, con punte anche molto più alte: il duopolio (che Sky ancora non intacca) è vivo e vegeto e condiziona i media del nostro paese. La seconda è che l’uomo di Arcore è pronto a rilanciare la sua sfida politica, alla faccia di chi lo voleva oramai fuori gioco. La terza, quella che più ci interessa a poche settimane dall’elezione del nuovo parlamento, è che le sue televisioni rimangono a sua disposizione quando si tratta di cercare consensi: basta dare un’occhiata ai numeri Agcom di novembre per avere conferma di un dato che da qualche mese risulta chiarissimo ( e che questo giornale ha già segnalato ad agosto). Come del resto si è visto con l’intervista di Costanzo a Berlusconi spostata in prima serata, Mediaset si appresta anche questa volta a tirare la volata elettorale al leader degli azzurri, alla faccia di deontologie professionali, par condicio o altre amenità pluraliste che da quelle parti vedono come fuffa.

Tg5, Tg4, Studio Aperto e TgCom hanno così da tempo inaugurato la campagna elettorale concedendo, dopo una lunga sordina, amplissimo risalto alle gesta di Forza Italia e del suo fondatore. Con tempi di antenna e di parola scandalosamente alti: in media rispettivamente 28% e 35% (al tg di Liguori la palma della parzialità con il 40% del tempo di parola a Fi). Non succedeva dal 2013, Letta al governo, quando il partito di Berlusconi raccoglieva dal 30 al 45% delle attenzioni nei suoi tiggì (percentuali poi precipitate anche fino ad un terzo). Numeri abnormi che più nessuno va a guardare, e di cui nessuno sembra più scandalizzarsi, ma intollerabili per televisioni che pur godono di concessioni pubbliche nonché per chi abbia a cuore non diciamo il pluralismo, ma anche soltanto l’etica di un mestiere. Si sa, il vero partito di Berlusconi sono state, e restano ancora oggi, le sue televisioni.

Ad avvalorare il nostro discorso la constatazione di come, viceversa, le tv di Forza Italia abbiano quasi azzerato l’attenzione per la Lega, i Cinquestelle e figure istituzionali come il premier, che fino all’anno scorso godevano di un’esposizione sui telegiornali Mediaset di gran lunga superiore.

Temiamo che la tenaglia elettorale della par condicio, unica legge tv decente varata dalla sinistra al governo, ma che scatta a 30 giorni dal voto, non basterà nelle prossime settimane ad arginare l’offensiva in vista delle urne.
Forse non ce lo ricordiamo più, ma proprio il compianto Ciampi nel gennaio 2006 arrivò a chiedere alle Camere, di fronte alle scorrettezze in video di Berlusconi, l’applicazione anticipata della norma. Resta il rammarico, che sa di incredibile beffa dopo gli anni dell’Ulivo e quelli di Renzi, di come anche questa volta si sia sprecata l’occasione di fare del nostro paese, sul fronte del pluralismo tv, un paese normale.