Sottrarre la memoria di quanto accaduto al confine orientale del Paese prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, alla propaganda dell’estrema destra e rendere finalmente il «Giorno del Ricordo» – istituito nel febbraio del 2004 per commemorare le vittime delle foibe e l’esodo di istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra, la prima proposta di legge in tal senso venne dagli eletti di Alleanza Nazionale – «una data per ricordare i drammi prodotti dal nazionalismo, dal fascismo, dalla violenza ideologica, dalla guerra».
Pensato per il grande pubblico più che per gli specialisti, E allora le foibe? (Laterza, pp. 116, euro 13), l’ultimo libro dello storico torinese Eric Gobetti, già autore di testi e documentari dedicati alle vicende dell’occupazione italiana e del movimento partigiano in Jugoslavia, ha il grande merito di riassumere i punti essenziali di una vicenda altrimenti complessa e intricata, con l’obiettivo dichiarato di favorire su questo tema il confronto civile piuttosto che lo scontro ideologico.

A QUANTI in questi anni hanno giocato sull’ambiguità e la confusione, cercando di trasformare il 10 febbraio in qualcosa di simile al Giorno della memoria (27 gennaio) – nel 2019 fu l’allora vicepremier Matteo Salvini a dichiarare, a Basovizza, un’analogia tra le vittime di Auschwitz e quelle delle foibe – o a costruire un racconto di quelle vicende che rende fascisti e nazisti vittime delle «belve slave», echeggiando una retorica razziale che era propria di quei regimi, come accade in Rosso Istria, un film trasmesso dalla Rai sempre due anni orsono, Gobetti replica con i dati e la ricostruzione del contesto nel quale tutto ciò ebbe luogo.

IN ALCUN MODO si tratta infatti di negare l’evidenza di una tragedia, quanto piuttosto di restituirla alla verità storica senza travisare la natura dei fatti e lo scenario nel quale si è compiuta. Prima di tutto va così ricostruito il processo che conduce, in un’area dove per secoli hanno convissuto decine di popoli, all’affermazione di «identità» chiuse e contrapposte. Sulle rovine dell’impero multietnico degli Asburgo, sarà l’Italia fascista a puntare tutto sull’italianità di queste terre dalle quali costringere «gli altri» ad emigrare forzatamente e con la violenza o a rinunciare a lingua e storia proprie. Una prospettiva che con l’invasione del 1941 ad opera delle forze dell’Asse, si tramuterà ulteriormente in una guerra razziale contro le popolazioni locali.

IN SEGUITO, dopo l’8 settembre, l’intera area diverrà parte della cosiddetta Zona d’operazioni del Litorale Adriatico, sottoposta al diretto controllo dell’amministrazione militare tedesca e dove le unità volontarie italiane della Rsi, come la X Mas di Borghese, svolgono compiti di repressione prendendo spesso di mira la popolazione civile.

È all’interno di questo drammatico orizzonte, fatto di stragi, deportazioni e sofferenze immani che vanno ricercate le radici di quanto avverrà nel dopoguerra, in quella che Gobetti definisce una drammatica «resa dei conti», simile a quanto accade nel resto d’Europa dopo il 1945.

Tra le 3000 e le 4000 le vittime italiane di una giustizia sommaria che mette insieme criminali di guerra, fascisti, possibili futuri avversari ideologici di un Paese, la Jugoslavia, che si va ricostruendo guardando all’Urss di Stalin, ma anche persone identificate come «nemici» solo perché appartenenti ad un’altra comunità.

Una tragica caccia agli avversari politici, presunti o reali, perciò ma non una «pulizia etnica» programmata come in molti l’hanno definita. Nello stesso periodo saranno 10mila gli sloveni, collaborazionisti o presunti tali, e 60mila i croati, uccisi nei territori liberati dai partigiani jugoslavi, nelle cui fila combattevano anche migliaia di italiani.

RICOSTRUIRE le proporzioni e il contesto della tragedia non toglie nulla alla gravità di quanto accaduto, spiega Gobetti, ma può scongiurare il rischio, insito nelle forme assunte fin qui dalle commemorazioni, «di far passare i fascisti per vittime, ma anche le vittime per fascisti». Nel primo caso si dimentica che fu il fascismo a dare il via a quel ciclo di violenza per almeno un ventennio, nel secondo si fa torto alla maggioranza delle vittime, «attribuendo loro un fardello di colpa che non hanno e non meritano».