Le consultazioni del presidente della Repubblica cominciano domani, esattamente un mese dopo le elezioni politiche che hanno consegnato un parlamento senza una chiara maggioranza (e forse senza una qualsiasi maggioranza). Lungamente attese, le consultazioni finiranno però già giovedì ed è chiaro che in 24 ore non potrà cambiare quello che non è cambiato in un mese di dibattito politico fermo al punto di partenza. Nessun passo in avanti non solo dal giorno del risultato elettorale, ma persino dagli ultimi giorni di campagna elettorale, quando sia Salvini che Di Maio ripetevano che avrebbero vinto e sarebbero entrati a palazzo Chigi. Lo dicono anche adesso. Ma oggi come allora, malgrado l’ottimo risultato elettorale, non hanno i numeri per farlo. Il primo giro di consultazioni servirà a l presidente della Repubblica per favorire una presa d’atto.

Al primo giro, è ormai previsione corrente, seguirà un secondo giro di consultazioni che dovrebbe impegnare la prossima settimana. È vero che nella lunga storia della Repubblica non sono mancati casi di partenze lente della legislatura, con un record nel 1992 quando si riuscì a formare un governo solo due mesi e tre settimane dopo il voto. In quel caso però in mezzo c’erano state le dimissioni di un presidente della Repubblica e la complicata scelta del successore. Ma anche le enormi difficoltà che si sono registrate cinque anni fa, con il Pd e il Movimento 5 Stelle che giocavano nei ruoli opposti, il primo cercando di conquistare i voti del secondo per far partire il governo, sembrano poca cosa rispetto a quello che sta accadendo oggi. Allora, a quest’epoca, vale a dire un mese dopo le elezioni, c’era già stato il conferimento di un pre incarico (a Bersani) e la verifica dell’impossibilità di portarlo avanti. E dopo la pausa per la rielezione di Napolitano al Colle, il governo Letta fu in grado di partire in 24 ore. Una condizione che adesso appare impossibile.

Le consultazioni di Sergio Mattarella devono servire proprio a far maturare queste condizioni, per questo non possono essere brevi e al primo ciclo seguirà un secondo. L’unica soluzione possibile in breve tempo sarebbe quella di concludere che non c’è alternativa al ritorno alle elezioni. Ma è anche la soluzione che il Quirinale, nella sua tensione verso la stabilità, farà in modo di evitare.

Non sarà dunque questa la settimana decisiva e non sarà domani il giorno dal quale attendersi qualche indicazione più precisa, casomai giovedì quando nello studio alla vetrata del Quirinale saliranno le delegazioni dei partiti maggiori. I 5 Stelle e la Lega saranno gli ultimi, preceduta questa da Forza Italia che si presenterà con in testa Silvio Berlusconi, l’alleato che i grillini rifiutano. Sergio Mattarella si troverà a registrare questo veto e molti altri: Di Maio chiederà per se la guida del governo nel nome della «volontà popolare» – anche se il popolo, come da legge elettorale e Costituzione, non ha votato per un presidente del Consiglio. Salvini farà lo stesso in quanto auto nominato leader della coalizione «che ha vinto», ma nemmeno lui ha i numeri per governare. Il Pd, con Martina, dovrebbe fare attenzione a non ripetere al capo dello stato la strampalata tesi che sono stati gli elettori a mandare il partito all’opposizione. Il reggente dei democratici è vincolato però alla linea della «non collaborazione» e da qui dovrà partire, al massimo promettendo al presidente della Repubblica cercherà di evitare il sabotaggio. È chiaro che le attenzioni di tutti sono rivolte a quello che potrà succedere quando qualche veto comincerà a essere ritirato dal tavolo.

Anche in tempi più lunghi, e magari di fronte alla ripresa della speculazione contro l’Italia che aggiungerebbe urgenza alle scelte, Di Maio difficilmente accetterà di avere Berlusconi come partner di governo. Ma potrebbe acconsentire a fare un passo indietro rispetto alla guida dell’esecutivo. Salvini al momento non vuole rompere il patto con Forza Italia. Non certo per ragioni di lealtà. Quando dovesse convincersi che può ugualmente puntare alla leadership di tutta la destra, potrebbe fare un passo verso il governo con Meloni e Di Maio e senza Berlusconi. Resta lo scenario meno inverosimile.
L’ipotesi di riserva, quella di una soluzione che metta ai margini il partito premiato dagli elettori (M5S) per costruire un governo attorno al centrodestra allargato e a una figura istituzionale, richiederebbe un protagonismo diretto del capo dello stato – per questo si parla di «governo del presidente» – che non è facile immaginare.