Come filmare il lavoro? La scommessa in questo confronto di ritmi, geometrie, punto di vista, posto dello spettatore è sempre rischiosa, e forse ancora di più oggi che la dimensione lavorativa si è frantumata in una moltitudine di individui e di contraddizioni. Quali piste seguire, dunque?

Il cinema d’oltralpe ha in questo una sua «tradizione» più articolata (almeno rispetto all’Italia) anche sul piano della riflessione – ne ha scritto in modo illuminante Jean Louis Comolli – che si traduce in una presenza del soggetto ricorrente.

Ne è un esempio l’arrivo in sala di due film francesi che mettono il lavoro al centro della propria scrittura: Un autre monde di Brizé e A plein temps, qui col titolo di Al cento per cento che del primo è quasi un controcampo (obliquo) – entrambi erano alla scorsa Mostra di Venezia, A plein temps ha vinto Orizzonti e il premio per la migliore attrice della sezione alla sua protagonista, Laure Calamy, che ne sorregge l’intero movimento.

È lei a dare vita a Julie personaggio che catalizza il nostro tempo. Giovane donna come moltissime oggi, due figli piccoli, l’ex marito che non paga gli alimenti, un lavoro di cameriera in un hotel di lusso che non c’entra nulla coi suoi studi di economia ma che le serve per sopravvivere, ogni mattina Julie lotta con la sveglia quasi di notte, i malumori dei bambini, i treni in ritardo. E mentre pulisce la «merda dei ricchi» è sopraffatta dalla banca, dalle telefonate sul mutuo e sullo scoperto di conto.

ORA A PEGGIORARE la situazione ci sono anche gli scioperi che paralizzano il Paese e costringono chi come lei vive nelle periferie – scelta obbligata per stare a metà strada tra il lavoro e l’ex marito dice – ma lavora a Parigi a ulteriori acrobazie. Julie corre, corre, corre sempre, corse che spezzano il fiato: corre per accompagnare i figli dalla signora che li bada e per andare a riprenderli in orario la sera, corre per prendere i bus sostitutivi o un treno di fortuna quando gli scioperi bloccano la linea e non tardare al lavoro, corre per occuparsi della casa, fare la cena, vestirsi al mattino, finire il lavoro arretrato, trovare il modo per affrontare un colloquio con la speranza di un posto migliore. Da questa battaglia quotidiana sembra non avere scampo.

E la corsa sfiancante che priva di ogni piacere – anche stare coi figli i pochi minuti perché la testa è sempre altrove – è l’idea su cui Gravel, al suo secondo lungometraggio ha costruito la narrazione: le 24 ore della donna da quando si sveglia nel buio, con l’occhio in primo piano, a quando scivola di nuovo nel letto. Un respiro implacabile, mozzato dall’ansia, che non permette a quei corpi risucchiati dai ritmi esterni «al cento per cento» di ritagliarsi un proprio spazio, qualcosa nel quale esistere.

LEI COME le altre con cui lavora non scioperano, non hanno solidarietà reciproca, il bisogno fa sì che si aggrappino a quel lavoro anche se fa schifo, e lo sciopero è un lusso. Tutto vero anche se Gravel, che dice in una intervista a «Le Monde» di avere di non avere cercato un «film realista ma iperrealista mettendo la struttura dei film d’ azione a servizio di temi più seri» non sottolinea troppo lasciando alla dimensione «fisica» della narrazione il compito di sollevare i molti interrogativi che riguardano la nostra realtà.

Questa (bella) scelta formale, che nella ripetizione dà il senso della a vita della donna perde però le sue potenzialità nella relazione con una sceneggiatura che nonostante l’apparente discrezione è molto presente. A cominciare proprio dal personaggio di Julie, che sembra voler sintetizzare ogni dettaglio che potrebbe riguardare una donna nel precariato. Per carità è tutto «vero», ma che vi si ritrovi in una sola figura fa un po’ casistica all’eccesso. E non si tratta di esigere un happy end – che peraltro arriva seppure fuori campo – ma di «aprire» la storia, lasciando un po’ di libertà anche a chi guarda. Lo stesso conflitto quotidiano del contemporaneo può esistere – e persino meglio – se non è tutto «apparecchiato» per capire, permettendo qualche spiazzamento, delle imprevedibili sorprese. Qualcosa insomma che si fa cinema anche nel confronto col mondo.