È stato confermato domenica l’arresto di quattro giornalisti egiziani fermati giovedì per una protesta al Cairo contro la decisione di Trump di trasferire l’ambasciata statunitense a a Gerusalemme.

Il presidio sulla scalinata del sindacato dei giornalisti si era concluso con l’intervento delle forze di sicurezza e oltre dieci arresti. Alcuni arrestati risultavano scomparsi da quando, dopo il fermo, il loro luogo di detenzione è rimasto sconosciuto a familiari e legali per oltre 72 ore.

Sono almeno una decina le persone fermate negli ultimi giorni durante le proteste con l’accusa di appartenere a un’organizzazione terroristica, secondo quanto riportato da Khaled Ali, avvocato per i diritti umani e candidato alle prossime presidenziali.

Venerdì sono esplose numerose le manifestazioni di protesta in Egitto. Le più imponenti si sono viste ad Alessandria e al Cairo, dove alcune migliaia di persone si sono radunate nei pressi della moschea al-Azhar dopo la preghiera.

Anche attori istituzionali, come l’unione degli avvocati, la federazione delle professioni mediche e i docenti dell’università del Cairo non hanno mancato di farsi sentire con assemblee e sit-in.

Sabato e domenica, invece, è stata la volta degli studenti universitari e medi, che sono scesi massicciamente in strada nelle città egiziane al grido «Gerusalemme è araba».

Le manifestazioni studentesche sono state decine, non solo nelle università più importanti del Cairo, ma anche in molte città delle province più periferiche, dal Delta all’Alto Egitto. Una serie di video amatoriali pubblicati dal canale Al Jazeera Egitto mostrano cortei di centinaia e a volte migliaia di persone, spesso giovanissime. Il movimento studentesco è il vero protagonista di queste giornate in Egitto, tanto da far ribattezzare l’ondata di protesta «l’Intifada degli studenti».

In tutte queste occasioni la presenza delle forze di sicurezza è stata imponente, spesso impedendo ai manifestanti di procedere in corteo. Alcuni partiti di sinistra e liberali si sono visti negare l’autorizzazione a una protesta che si sarebbe dovuta tenere nei pressi della Lega Araba (vicino piazza Tahrir), sulla base di una controversa legge sulle proteste.

Anche il papa copto e il grande Sheykh della moschea di al-Azhar (la maggiore istituzione islamica in Egitto) si sono schierati rifiutandosi di incontrare il vice-presidente statunitense Pence, con il quale era programmato un incontro nei prossimi giorni.

Il regime egiziano non si è lasciato sfuggire l’occasione per inasprire la repressione, arrestando cinque presunti membri della Fratellanza Musulmana accusati di voler sfruttare la crisi palestinese per fomentare disordini.

Le proteste in solidarietà con il popolo palestinese in Egitto sono storicamente molto forti e spesso prendono di mira anche il regime al potere, scagliandosi contro la complicità con l’asse Usa-Israele, ma anche dando voce al malcontento contro le politiche interne.

L’ondata di proteste che ha investito tutto il mondo arabo e islamico ha un’importanza particolare in Egitto, perché – in un periodo di inasprimento dello stato di polizia – la lotta al colonialismo sionista rappresenta una valvola di sfogo per il desiderio represso di partecipazione politica.

Oggi qualsiasi tipo di manifestazione è di fatto illegale nel paese di al-Sisi, quindi queste marce spontanee e di massa rappresentano una sfida diretta allo stato di emergenza permanente. Le proteste pro-Palestina sono difficili da reprimere per il governo, che non può schierarsi apertamente contro la causa palestinese.

Per questo motivo le campagne di solidarietà con la Palestina sono un’occasione che i movimenti di opposizione egiziani spesso sfruttano per ricompattarsi e tornare a occupare le strade e le piazze sotto una bandiera politicamente inattaccabile con un grande appeal tra la popolazione.

Nei primi anni 2000 il movimento egiziano di solidarietà con la seconda Intifada palestinese diede l’avvio a una lunga stagione di proteste durata per tutto il decennio, che ha favorito l’incontro tra forze politiche di opposizione e ha aperto la strada a un vasto movimento di protesta che è poi culminato nella rivoluzione del gennaio 2011.