Se c’è un filo conduttore che lega i trenta corti in gara da oggi per il quarto Ca’ Foscari Short Film Festival (fino a sabato 22 marzo) sullo schermo dell’Auditorium Santa Margherita, è la violenza. Di tutti i tipi, la violenza sulle donne, fisica nella guerra, delle torture, quella psicologica nelle relazioni amorose e nelle società a duro regime religioso. In breve: la violenza con la V maiuscola ormai «globalizzata», infatti gli argomenti sono simili ormai e non crea tanta differenza se una storia è ambientata in India piuttosto che in Spagna o in Norvegia. I giovani autori di questi «piccoli film» provenienti da diciannove paesi, allievi presso le migliori scuole di cinema nel mondo, testimoniano di una presa di coscienza profonda e grande volontà di cambiare le regole fissate da millenni nella tradizione.

Partiamo da En homo in Marrakech (Un gay a Marrakech) del norvegese Bård Faker dalla Westerdals School of Communication di Oslo. Si parte con immagini classiche del souk, nell’off la voce dello stesso Bard, gay dichiarato nel suo paese dove i diritti degli omosessuali sono tutelati, ma lui vuole denunciare i la mancanza di tutela nelle nazioni dove per il proprio orientamento sessuale rischia la vita. In Marocco infatti è un divieto, la religione islamica non permette l’unione tra due persone dello stesso sesso, che siano uomini o donne, e Bard fa fatica a comprendere come si possa vivere le proprie passioni di nascosto. Riprendendo se stesso esprime dritto in macchina le sue opinioni per poi recarsi al bar che è il ritrovo clandestino dei gay nella vecchia Medina. Qui le immagini sono sfocate, nessuno vuole partecipare al film parlando di sé. Bard racconta fuori campo come è riuscito a far amicizia con il gestore che lo ha aiutato a trovare delle testimonianze dirette. Un uomo accetta di parlare, lo porta in casa sua, vediamo soltanto dettagli dell’arredo, della pentola in cui cuoce il Tahjin, mentre la voce deformata narra nell’off la difficile situazione, lui si incontra con l’uomo che ama, in privato. Ci sono molti costretti ad emigrare a Parigi per vivere in modo più libero, per lui va bene così, l’importante è il rispetto reciproco e soprattutto il principio “ama chi vuoi ma non in strada”. Stacco. Siamo ormai in post produzione, Bard racconta di aver scoperto con sgomento dal profilo su facebook della morte di Yann, il gestore del bar. Dopo la scomparsa il corpo è stato ritrovato bruciato nel suo cortile.

Di crimini, contro l’umanità, si narra in T’adhib di Raquel Bedìa proveniente dalla scuola Ecam di Madrid: quindici minuti intensi di riflessione sulla tortura, sulla morte subìta per non tradire le proprie idee, i propri amici e compagni. Una tenda svolazzante con voci arabe femminili fuori campo già annunciano la celebrazione dell’assenza di vita. Bedìa procede per stacchi netti nel montaggio sulla vicenda dal forte impatto emotivo di un corrispondente di guerra. Un uomo nudo steso sul tavolo, legato con fili di cuoio, volto bendato, acqua che cola dall’alto su ciò che si suppone essere la testa. «Ora parliamo», si sente nell’off mentre una mano scopre il volto: è quello del nostro protagonista i cui occhi blu ci guardano in tutta la loro nitidezza. Cut. Immagini video di un servizio televisivo da Fallujah sul regime di Saddam Hussein, lui era stato inviato per documentare le torture subìte da tante persone. Cut. Interno di una stanza, il reporter batte i tasti del computer, il telefono squilla. Cut. Incontro con uno dei torturatori durante il regime militare in Argentina che serenamente racconta le modalità praticate per dieci anni della sua vita. Convinto di quello che ha fatto perché secondo lui nella vita ci sono pochi innocenti. Cut. Il nostro reporter entra nel Garage Olimpo, basta poco per richiamare quelle atrocità, pareti nude, la serranda che si chiude con violenza, ed ecco Andrès sperimentare su di sé quei colpi inflitti ai corpi che se parlavano andavano a finire nell’oceano e se restavano muti si procedeva con altri metodi. Quali?

Vuole andare a fondo, il reporter che in Iraq aveva incontrato Ashof, uomo poeta, ucciso brutalmente a colpi di cariche elettriche. Il torturatore non vuole passare agli «altri metodi» perché «tutto ormai è scritto nel tuo corpo«. Cut. Flashback dell’incontro con Ashof che gli dice se dimentichi il mio nome muoio per davvero. Nell’immagine successiva ritroviamo il reporter che si autoinfligge le cariche elettriche visualizzate con interventi sempre più in nero sul suo volto rendendolo sempre più inquietante.

Il corpo non dimentica, è vero. Lo si tematizza nell’indiano Amidst Dark diretto da Sohini Singh, allieva della Whistling Woods International di Mumbay. Linguaggio visivo forte per narrare la violenza subita da piccola che lei non riesce a dimenticare né a superare, il suo corpo continua a dire no al suo futuro sposo. Soltanto il ritorno nella casa natale, il rivivere attraverso flashback alcuni momenti chiave per lei; le molestie dello «zio», la madre che caccia il padre e riceve in casa gli manti. L’assurdità delle guerre religiose è resa esplicita in God is the Greatest (dio è grande) Kai Gero Lenke, studente presso la Columbia University School of the Arts: sullo sfondo della guerra civile in Siria, di cui si menzionano le oltre centomila vittime registrate nel giugno 2013 dall’Onu, madre e figlio avanzano in uno scenario fantasma di Aleppo.

Una enorme facciata ridotta a uno scheletro di muro, colpi di sparo fuori campo, la figura femminile in nero cade, la figura maschile scappa indietro. Inquadrature molto strette mostrano il suo volto e altri soldati che sparano urlando Allah Akbah (dio è grande). Compare un giovane, in abiti civili, crede che la donna sia ancora viva, si precipita verso di lei, ora le immagini sono quasi abbaglianti per i nostri occhi mostrano la sabbia illuminata dal sole accecante, il giovane lega i piedi della donna, e il gruppo di soldati la tira verso di sé. È morta. Il montaggio parallelo tra la disperazione del figlio e l’avanzare del giovane, occhi profondi, passo lento e deciso, verso il luogo dell’uccisione, è da mozzafiato. Cosa accadrà? Osserviamo dal punto di vista del cecchino iniziale ora, da dove era stata colpita la madre, ora viene ucciso il figlio. «shot», si legge, un termine che in inglese ha una doppia valenza, significa sparare e anche riprendere. Vorremmo ampliare il suo significato in: «riprendere» la vita, la pace, la serenità.

19VIS1homomarrakechkokokokokokokoKOKOKO