Per una strana coincidenza della storia della scienza, la celebrazione del centenario della teoria della relatività generale di Einstein e la rilevazione delle onde gravitazionali che la confermano clamorosamente sono avvenute nello stesso anno, il 2015. A sua volta, la collisione tra i due eventi ha provocato un’onda d’urto che continua a propagarsi sia sul piano della scienza che su quello della comunicazione. Da un lato, solo due mesi fa un’onda gravitazionale è stata rilevata per la prima volta sia dai nuovi osservatori gravitazionali Ligo e Virgo che dai telescopi tradizionali. Dall’altro, proseguono le iniziative editoriali, i festival e le mostre dedicate alle idee di Einstein e alla loro influenza sulla cultura del nostro tempo. I due fenomeni si alimentano a vicenda: mentre le scoperte giustificano nuove iniziative comunicative, il risalto mediatico dei progressi scientifici, in tempi di scarsi finanziamenti pubblici, aiuta a racimolare fondi per la ricerca.

IN QUESTO PANORAMA si inserisce Gravity. Immaginare l’universo dopo Einstein, la mostra da poco inaugurata al Maxxi di Roma, dove rimarrà fino a aprile 2018. La cura un team interdisciplinare, composto da Luigia Lonardelli (Maxxi), Vincenzo Napolano dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e Andrea Zanini dell’Agenzia Spaziale Italiana. I tre si sono avvalsi della consulenza di Giovanni Amelino-Camelia, uno dei più brillanti fisici italiani inserito qualche anno fa dalla rivista Discovery in una lista di sei possibili «prossimi Einstein».
Il visitatore di Gravity viene immerso in uno spazio buio e silenzioso, non troppo diverso da quello che circonda la passeggiata spaziale di un astronauta. Se l’astronauta nelle sue spacewalk può scorgere satelliti, frammenti di roccia e sonde spaziali, in Gravity l’oscurità è interrotta da installazioni, video, suoni e reperti scientifici.

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L’OBIETTIVO DELLA MOSTRA è far dialogare il linguaggio della scienza e quello dell’arte, cercando di superare l’eterna separazione tra le «due culture». Così, il concetto di casualità esplorato e difeso strenuamente da Einstein subisce una sorta di stress test in un video assai celebrato, The way things go (1987) degli svizzeri Peter Fischli e David Weiss. E la rete creata dalla materia oscura nell’universo secondo alcune recenti ipotesi scientifiche viene messa a confronto con la tela che un ragno tesserà durante i cinque mesi dell’esposizione (ma è già a buon punto), in un’installazione che mescola arte e natura dell’argentino Tomás Saraceno.
Nel buio del Maxxi, acquistano un’aura vagamente metafisica anche gli strumenti di ricerca esposti. Si può osservare ciò da cui tutto è partito, cioè uno dei primi cannocchiali risalente agli anni di Galileo, del quale è proposta anche una stampa originale del Dialogo sui Massimi Sistemi. Ma la maggior parte degli oggetti si riferisce all’oggi. L’antenna della sonda Cassini che ci ha inviato i segnali da Saturno, ad esempio, ha appena concluso la sua missione dopo vent’anni di navigazione interplanetaria, e al Maxxi troneggia un suo modello di volo.

IN UN’ALTRA TECA, simile a un totem religioso, giace il satellite Lares. È una sfera di tungsteno del diametro di 36 centimetri, ricoperta di specchi come un globo stroboscopico da discoteca anni ’70 e dal 2012 vola intorno alla terra a 1400 chilometri di quota. Nonostante le sue dimensioni, ha una massa di quattrocento chilogrammi, tanto da essere l’oggetto più denso in orbita intorno al sole, pianeti inclusi. Tutta questa materia concentrata dovrebbe essere in grado di provocare una curvatura dello spazio-tempo rilevabile con gli strumenti, se le teorie di Einstein sono corrette (spoiler: lo sono).

NON MANCANO GLI ASSAGGI di futuro, con il modello in scala del prossimo osservatorio gravitazionale Laser Interferometer Space Antenna (Lisa): una rete di tre satelliti che dal 2034 orbiteranno intorno al Sole formando un triangolo spaziale perfettamente equilatero per rilevare onde gravitazionali ancor più deboli di quelle intercettate da Ligo e Virgo. Il sistema è sempre lo stesso: un interferometro come quello usato da Albert Michelson e Edward Morley nel 1887 per dimostrare che la luce si muove nello stesso modo in ogni direzione, simile a quello che il Maxxi mette a disposizione dei visitatori per un’esperienza diretta. In un secolo, però, sono cambiate le dimensioni degli strumenti. Dai pochi metri a disposizione di Michelson e Morley siamo passati ai 4 chilometri di Ligo e Virgo, mentre il triangolo di Lisa avrà un lato di due milioni e mezzo di chilometri.

Ma Gravity non è solo la giustapposizione di elementi scientifici e di opere d’arte. In molti casi, infatti, i due ambiti si mescolano. È questa la scommessa dell’artista Laurent Grasso: la sua installazione non è altro che una fedele riproduzione dell’antenna con cui Arno Penzias e Robert Wilson scoprirono che nello spazio è ancora presente la radiazione proveniente dal Big Bang sotto forma di micro-onde che scaldano il cosmo tre gradi sopra lo zero assoluto. L’antenna sembra precipitata dallo spazio in un ambiente pervaso da immagini enigmatiche e un rumore di fondo di cui, come Penzias e Wilson, il visitatore è chiamato a interpretare l’origine.
Non mancano, infine, le installazioni più divulgative, in cui osservare la curvatura dello spazio-tempo muovendosi in un ambiente deformato dal nostro passaggio. Infine, grandi e piccoli potranno lanciare le biglie in una sorta di imbuto, per accorgersi che l’attrazione gravitazionale ipotizzata da Newton può essere interpretata come una particolare piegatura dello spazio tempo.

«GRAVITY» NON È IL PRIMO tentativo di mettere in connessione l’arte moderna e la rivoluzione scientifica einsteiniana. Anzi, spesso i tentativi hanno peccato per eccesso, attribuendo alla teoria della relatività un’influenza decisiva (ma falsa) sulle avanguardie di inizio ’900: in fondo, la scomposizione delle forme di Picasso non rimanda alla disgregazione dei concetti assoluti di spazio e tempo? La risposta, però, la diede lo stesso Einstein nel 1946, rispondendo al critico Paul Laporte che ipotizzava un legame tra cubismo e relatività: «il nuovo ’linguaggio’ artistico non ha nulla in comune con la Teoria della Relatività». Einstein stesso riteneva che la parola «relatività» conducesse all’equivoco: la sua teoria infatti non introduceva una generica molteplicità di punti di vista, ma anzi ipotizzava che le leggi della fisica fossero le stesse indipendentemente dall’osservatore.
I curatori della mostra hanno dunque evitato un errore comune: affidare all’arte il compito di cogliere la complessità della teoria fisica moderna e restituirla in modalità più accessibile, come se i lunghi anni di studio necessari per una carriera da scienziato si potessero aggirare. Al contrario, in Gravity il linguaggio artistico e quello scientifico appaiono pervasi di una inevitabile dose di mistero per il visitatore. Ma è forse questo «mistero», e la sfida di attraversarlo, la condizione che davvero accomuna arte e scienza.