«Sto vivendo quello che scrissi in un romanzo. Anni fa mentre vagavo in quel territorio ignorato, enigmatico e confuso dove la letteratura tocca la vita, incontrai il mio destino ma non l’ho riconosciuto. Ora sono in arresto come il mio protagonista. Passeremo il resto della vita da soli in una cella di tre metri per tre. Non avremo mai la grazia e moriremo nella cella di una prigione. Non vedrò di nuovo il mondo. Sto andando all’inferno».

Sono alcune parole di una lunga lettera che Ahmet Altan ha scritto dalla prigione turca di Silivri e pubblicata sul New York Times. L’ha scritta dopo la condanna all’ergastolo aggravato, pena comminata il 16 febbraio scorso allo scrittore ed editore del quotidiano Taraf (chiuso a fine luglio 2016 su ordine del governo), al fratello giornalista Mehmet, all’editorialista Nazli Ilicak e ai reporter Fevzi Yazici, Sukru Tugrul Ozsengul e Yakup Simsek.

Condannati con l’accusa di aver incitato al colpo di Stato e aver preso parte al presunto piano del movimento dell’imam Gülen, considerato da Ankara la mano che ha mosso i fili del tentato putsch del 15 luglio 2016.

Lo scrittore turco Ahmet Altan
Lo scrittore turco Ahmet Altan

 

Ma la mannaia brandita da una magistratura epurata dalla campagna punitiva (e dai confini ben più ampi di quelli del mero golpe) indetta dal presidente Erdogan continua a colpire: Ahmet Altan è stato condannato mercoledì ad altri cinque anni e undici mesi per due diversi capi di accusa.

Tre anni per «propaganda terroristica»: in un articolo sul sito Haberdar, durante la dura campagna militare turca contro il sud est turco, scrisse di bambini che combattevano i soldati turchi scavando trincee. Due anni e undici mesi, invece, per «insulti al presidente», reato commesso secondo la procura con un documento che lesse durante una precedente udienza.

La guerra del regime turco alla libertà di stampa, di espressione, alla cultura e ai suoi esponenti prosegue. Nel silenzio generalizzato si alzano le voci di 38 premi Nobel che due giorni fa hanno scritto una lettera aperta al presidente Erdogan per chiedere l’immediato rilascio dei giornalisti condannati al fine pena mai.

«Tutti questi autori hanno speso le loro carriere opponendosi a colpi di Stato e militarismi di ogni sorta eppure sono accusati di aver aiutato un’organizzazione armata terrorista e di aver ordito un golpe – scrivono i Nobel, tra cui Mario Vargas Llosa, Kazuo Ishiguro, Svetlana Alexievitch, JM Coetzee e Joseph Stiglitz – Il commissario (del Consiglio d’Europa, ndr) ha letto la detenzione dei fratelli Ahmet come parte di un più ampio modello di repressione in Turchia contro chi esprime dissenso o critiche verso le autorità. Chiediamo l’abrogazione dello stato di emergenza, un rapido ritorno allo Stato di diritto e alla piena libertà di parola ed espressione».

Una libertà che non si limita alla parola scritta, al romanzo, all’articolo di giornale Arriva alla musica, altra arte presa di mira dalla repressione di Stato. Secondo quanto denunciato da agenzie curde e da un parlamentare del partito kemalista Chp, la tv/radio pubblica Trt ha messo al bando 208 canzoni (142 in turco e 66 in curdo) perché «immorali» o per i «contenuti politici».

Brani come «Ay le Gule», O’ Rosa, famosa canzone curda che richiama ad un fiore dai colori della bandiera del Kurdistan; ma anche pezzi pop delle più note cantanti del paese, come Sila, Demet Akalin e Nukhet Duru. Testi e videoclip attenterebbero alla moralità della società e ai valori della famiglia, il motivo.

Poco dopo la denuncia, su Twitter la Trt ha negato di aver messo al bando qualsivoglia canzone, ma di seguire comunque le linee guida su immagini di alcol e tabacco nei videoclip. Immagini che però non appaiono quasi per nulla nei video delle canzoni della presunta lista nera. Tra accuse e difese i turchi restano in attesa di verificare, radio o telecomando alla mano, se il bando esiste oppure no.