La violenta campagna mediatica contro il candidato progressista Gustavo Petro non ha sortito l’effetto desiderato: sarà infatti proprio lui a sfidare al ballottaggio del 17 giugno il favorito Ivan Duque, del Centro Democrático di Álvaro Uribe, arrivato primo alle presidenziali di domenica con il 39% delle preferenze, al termine di una giornata elettorale caratterizzata da un’affluenza superiore al 53% (quando normalmente non supera il 45%) e da più di mille denunce di irregolarità, non tali però da configurare quella frode massiccia che si era temuta alla vigilia.

UN’IMPRESA, QUELLA DI PETRO, realizzata grazie a un discorso anti-establishment efficacemente portato avanti nelle piazze e nelle reti sociali e rivolto soprattutto ai giovani, evidentemente meno spaventati dai fantasmi del castrochavismo evocati con grande abilità da Uribe, in un Paese in cui più della metà della popolazione teme che la Colombia possa trasformarsi in un’«altro Venezuela». Che è poi il modo migliore per distrarre l’opinione pubblica dal fallimento di un modello escludente e dai guasti di un sistema politico permeato completamente dal crimine organizzato.

L’ATTENZIONE SI SPOSTA ORA sulla decisione che, in vista del secondo turno, prenderà il candidato del centro-sinistra Sergio Fajardo, giunto terzo con il 23,7% delle preferenze (contro il 25% di Petro), il quale non si è ancora pronunciato su eventuali alleanze.

Di certo, però, a fronte della cronica tendenza dei settori progressisti a dividersi, riconfermata in pieno anche in queste elezioni, l’unione delle forze anti-uribiste si annuncia come l’unica strada possibile per scongiurare l’affermazione di Duque. E quindi per allontanare lo scenario da incubo che in quel caso attenderrebbe il Paese, soprattutto in relazione agli accordi di pace con le Farc – già in fortemente in bilico per le inadempienze governative -, che il Centro democrático ha già di detto di voler «fare a pezzi». Ma anche rispetto alla subordinazione incondizionata agli Stati uniti e alle multinazionali, al narcoparamilitarismo, alla negazione dei diritti delle comunità indigene, afro e contadine.

TUTTAVIA, anche nel caso in cui Petro riuscisse a battere il candidato del Centro Democrático, la strada per lui sarebbe tutt’altro che in discesa, dal momento che si troverebbe di fronte un Congresso dominato – per il 72% al Senato e per l’87% alla Camera – dalle forze di destra, tanto quella estrema di Uribe quanto quella tradizionale rappresentata da Germán Vargas Lleras, il candidato sostenuto dal presidente Santos, giunto tuttavia solo quarto alle presidenziali, con un misero 7% dei voti.

Cosicché non ci sono dubbi sul fatto che ad attendere i movimenti popolari della Colombia sia comunque un cammino di mobilitazione e di lotta: in caso di vittoria di Petro, per difenderne le aspirazioni al cambiamento e in caso di vittoria di Duque per contrastarne il programma autoritario e bellicista.