«La nostra rivoluzione, Mazen, continua. E sarà vittoriosa. Me lo hai insegnato tu». Scrigno alla speranza dell’insegnante ’Asma è il nuovo romanzo del più noto scrittore egiziano Alaa Al Aswani, Sono corso verso il Nilo (Feltrinelli, pp. 384, euro 18).

L’autore sarà oggi ospite di Libri Come a Roma, domani al festival Pordenonelegge e giovedì alla Feltrinelli di Piazza Duomo, a Milano. Lo abbiamo raggiunto al telefono.

Sedici anni fa dopo Palazzo Yacoubian, arriva questo romanzo, ambientato nei mesi incredibili della rivoluzione del 2011. L’Egitto che raccontò attraverso le vite degli abitanti di quell’edificio è diverso dal Cairo di Piazza Tahrir?

Gli esseri umani cambiano e cambiano le loro attitudini. Quello che resta sono i problemi: di fronte i miei personaggi hanno la stessa dittatura. Da Palazzo Yacoubian quello che cambia è la lotta per la democrazia, vista a Tahrir, che però non è riuscita a imporsi.

Il romanzo narra le tante anime dell’Egitto, la borghesia e il popolo, la ricchezza e la povertà, l’ipocrisia della religione e le aspirazioni dei giovani. C’è anche la sorpresa infastidita di chi in passato non è riuscito a fare la rivoluzione e si è piegato al regime. Quale di queste anime ha vinto?

La letteratura tenta ogni volta di definire e spiegare le ragioni della sofferenza umana, le attitudini e i comportamenti delle persone sono gli elementi che attraggono nella narrazione. Un romanzo di gente felice non è attraente, per questo si scrive di persone infelici e si cerca di andare all’origine di questa infelicità. Non ho preferenze, mi sento vicino a tutti i miei personaggi, li sento tutti parte di me perché tutti loro sono esseri umani. Non è pessimismo. Io sono ancora ottimista: quei giovani rivoluzionari ci sono ancora, ci sono copti, musulmani che sono stati cambiati dalla rivoluzione. Le posizioni interne sono sempre più progressiste.

Tahrir produce ancora i suoi effetti sugli egiziani?

Assolutamente. Prima della rivoluzione erano tantissimi quelli che mai avrebbero creduto in un cambiamento politico, persone ordinarie che mai avrebbero pensato di assistere a una rivoluzione. Avevano i loro problemi, avevano la loro bolla e ci vivevano dentro. Una bolla che Tahrir ha fatto esplodere: i giovani hanno fatto sì che questi egiziani si sentissero parte della rivoluzione, si impegnassero per essa. Ne ho visti personalmente tantissimi. E quell’effetto persiste, anche senza rivoluzione: il popolo egiziano è cambiato.

In Europa la stampa dà per morte le cosiddette primavere arabe. Ma le rivoluzioni, se sono stravolgimenti rapidi, sono anche processi storici lunghi. Tahrir tornerà?

Se ci chiediamo cosa la rivoluzione ha ottenuto, non dobbiamo fermarci ai risultati politici. Non ne ha ottenuti, viviamo sotto una dittatura. Ma la rivoluzione non è solo politica. Ha effetti ben più ampi perché produce cambiamenti culturali irreversibili. Nel caso egiziano ha stravolto la visione delle donne, della religione, del modo di rapportarsi, della relazione tra popolo e potere. C’è stata una rivoluzione culturale e non si tornerà indietro. Ciò è vero soprattutto per i giovani. Se poi si pensa che il 70% degli egiziani ha meno di 40 anni, si capisce bene che Tahrir è viva.

Lei ha trascorso i 18 giorni di rivoluzione in Piazza Tahrir. Le storie e le vite che racconta nel romanzo le ha incontrate davvero? Leggendolo sembra di trovarsi di fronte a un romanzo-documentario.

La mia è fiction ispirata alla realtà. I personaggi sono inventati ma ispirati a persone che ho incontrato davvero. Per gli eventi narrati è lo stesso. È la storia umana della rivoluzione. Sono vere le testimonianze degli abusi in carcere.

Da egiziano, se l’aspettava?

È stata una sorpresa per tutti. C’è una grossa differenza tra scrivere una formula matematica e pensare una formula sociologica. Non si può mai sapere perché alla base sta la relazione del tutto speciale tra un popolo e gli eventi esterni.

L’attuale regime ha identica struttura politica e repressiva del precedente. Ma è molto più brutale, lo dicono i numeri sui prigionieri politici e le sparizioni forzate, sulle torture. Perché una simile violenza? Per paura?

Questo regime è peggiore del precedente perché è una tigre ferita, molto più pericolosa. La dittatura di Mubarak era una tigre «sana», sicura di sé, consapevole della sua potenza. Poi è stata ferita, e la ferita è stata la rivoluzione. La tigre è diventata aggressiva perché ha paura di essere di nuovo attaccata, di essere colpita di nuovo. Mubarak era un dittatore ma non era così repressivo con le opposizioni perché era convinto che nessuna sollevazione ci sarebbe mai stata. L’attuale regime è formato dalle stesse persone, gli stessi generali, gli stessi vertici politici che però ora hanno una nuova consapevolezza: la rivoluzione è possibile, di nuovo, e stanno facendo di tutto per impedirla. Al-Sisi lo ripete sempre sui giornali e in tv: non permetterà mai che si ripeta quanto successo sette anni fa.

Come spiega nel romanzo, all’epoca il regime sacrificò se stesso per sopravvivere. Quella ferita bruciò da subito.

Già durante la rivoluzione il sistema si attivò per perpetuarsi. Lo fece in tre modi: sacrificando Mubarak, alleandosi con i Fratelli Musulmani e punendo gli egiziani attraverso la creazione del caos che li ha spaventati a morte.

È stato difficile scrivere questo libro?

Quando arrivo a scrivere, la paura svanisce. È sempre difficile scrivere un romanzo, ma questo in particolare perché è la mia vita, è qualcosa di personale. E poi ci sono i problemi in Egitto, con il regime. Da decenni mi è vietato scrivere sui quotidiani, apparire in tv e organizzare i seminari culturali che ho tenuto per 20 anni. E mi è vietato pubblicare libri. Questo romanzo è edito da una casa editrice libanese ed è bandito in tutto il mondo arabo, eccetto in Tunisia e in Libano. Sono sempre sulla lista nera, con Mubarak e con al-Sisi.