l ritmo fluido dell’universo e la passione travolgente dell’arena, il fronteggiarsi di uomo e animale e le braccia alzate che dalla terra si sollevano verso gli astri celesti, cercando spazio per un respiro più profondo. Lo spagnolo Israel Galván de los Reyes e l’angloindiano Akram Khan, si sono incontrati per la prima volta sulla scena. Due corpi in sintonia che interpretano tradizioni antichissime, le ribaltano, le reinventano, le rispettano.

onagli alle caviglie per Khan, tacchi che «suonano» il flamenco per Galván, mani tese come banderillas e una serie di giri rotanti per ingraziarsi il cielo e gli dèi. Canti gregoriani e ballate ironiche dal vivo, sillabazioni dadaiste che riprendono il poema di Tristan Tzara da cui tutto nasce e un continuo rimando di passi e danze che sfociano anche in scherzi fisici. È Torobaka, lo spettacolo con cui il Romaeuropa festival ha aperto la sua stagione 2014 all’Auditorium della Conciliazione di Roma, affidandosi allo «specchio» sdoppiato di oriente/occidente. Al centro, c’è la pista, un mandala dentro il quale i corpi degli artisti si aprono al mondo, vestiti come gemelli, casacca scura e pantaloni.
Il flamenco che Galván destruttura come fosse un quadro cubista viene da molto lontano: lui si è nutrito di quel ritmo in bilico fra amore e morte nelle feste sivigliane; la sapienza di Khan affonda le sue radici in un passato divino, nelle movenze del kathak, danza di offerta sacrale, che il performer consegna al tempo presente. Ha studiato con il maestro Sri Pratap Pawar e, poco più che adolescente, ha vissuto sulla sua pelle la grande produzione teatrale del Mahabharata di Brook. Sempre alla ricerca di nuove contaminazioni, spirito inquieto, Akram Khan con Kaash nel 2002 chiamò a collaborare per le scenografie l’artista Anish Kapoor, nato a Bombay e trasferitosi poi a Londra. Un déraciné, comelui.

Con Desh, nel 2011 aveva regalato al pubblico del Romaeuropa un meraviglioso viaggio a ritroso nel suo paese (il Bangladesh), mescolando storia, geografie immaginarie e fiaba. «Non sono inglese e non mi sento neanche del Bangladesh – dice Khan – sono straniero, ovunque. Come molti della mia generazione, sono in cerca di una voce che è la combinazione tra le radici del mio paese d’origine e la cultura del posto dove sono nato. Si tratta di una terza via, una strada inedita tra oriente e occidente…».