Ritorna nelle sale italiane nel trentennale della sua uscita giapponese Akira, il lungometraggio animato diretto da Katsuhiro Otomo e tratto dal manga omonimo da lui stesso ideato e disegnato a partire dal 1982, il film sarà proiettato in molte sale italiane nella giornata di oggi 18 aprile (distribuito dalla Nexo Digital).
La storia di Kaneda e Tetsuo, giovani teppisti su due ruote che si muovono in una Neo-Tokyo semidistrutta, decadente e attraversata da rivolte dopo la terza guerra mondiale causata da un’esplosione nucleare, si intreccia con gli esperimenti per potenziare le capacità psichiche e telecinetiche di un gruppo di bambini.

Spesso la parola capolavoro è usata a sproposito nel cinema, ma il film di Otomo merita questa definizione senza se e senza ma, perché molti sono i motivi per cui è diventata un’opera miliare, non solo nel campo dell’animazione, così come sono molteplici gli angoli da cui oggi, nel 2018, si può affrontare ed analizzare questo lungometraggio. Innanzitutto l’aspetto tecnico: colori, rossi e arancioni su tutti, capacità di rendere il movimento, azione e l’originalità del tratto fanno di Akira un’esperienza visiva da non perdere. Chi andrà a vedere questa versione, che arriva con un nuovo doppiaggio, forse i sottotitoli sarebbero stati meglio però, avrà la possibilità di apprezzare una delle animazioni più fluide e realiste che mai siano state realizzate.

Akira è inoltre uno dei lavori che ha permesso all’animazione nipponica di diventare globale: se certamente altri lungometraggi dell’arcipelago, senza contare le serie animate, avevano già raggiunto America ed Europa, il film di Otomo di fatto inaugura un nuovo periodo per l’industria dell’animazone nipponica, nel quale sarebbero stati accettati anche lavori più «seri» e per adulti. In Akira inoltre si intrecciano e coagulano molte delle tematiche sociali e filosofiche che a quel tempo attraversavano l’arcipelago ed il mondo Occidentale e che si sarebbero sviluppate in modo compiuto negli anni a venire.

Il caos rappresentato nel film scaturisce dall’inadeguatezza politica nel gestire un periodo di emergenza, con le forze militari che di fatto governano e decidono il destino del paese contro le quali si organizza la resistenza segreta di parte della popolazione.
Su questo sfondo si muovono varie sottoculture, su tutte quella dei bosozoku, i gruppi di teppisti in motocicletta: la moto rossa di Kaneda resta uno degli oggetti di culto del film, attraverso la quale Otomo ed i suoi collaboratori esplorano e portano sullo schermo l’odio, l’amicizia e la solitudine delle nuove generazioni lasciate senza speranze da quella precedente. Tutto questo si sviluppa su un complesso impianto filosofico che forma la spina dorsale del film.

La vita dopo il disastro, qui la terza guerra mondiale, che da sempre informa l’estetica giapponese, si tinge in Akira di sfumature messianiche e spirituali, il nichilismo della situazione presente spinge verso una mutazione del corpo ed una fusione con l’inorganico che annuncia un possibile superamento dell’attuale stato dell’umanità.
Queste ultime problematiche sono sviluppate soprattutto nella parte finale del lavoro, dove il lungometraggio si complica e diventa più oscuro e più si diversifica dal manga.

Per queste ragioni alcuni critici hanno definito il finale di Akira confuso e raffazzonato e lo stesso Otomo durante la lavorazione del film attraversò un momento di crisi artistica, tanto che la leggenda vuole che un incontro con Jodorowsky – l’Incal è chiaramente una delle ispirazioni per Akira – fu fondamentale per dare al film il finale che ora tutti conoscono. Crisi personale, influenze jodorowskiane o semplicemente forma dettata dal medium filmico, l’ultima parte di Akira, criptica, aperta a differenti interpretazioni, resta uno dei migliori finali di sempre nel cinema animato.