«La mia confessione sul letto di morte». Cosi Norma McCorvey, tubi dell’ossigeno nelle narici, i capelli rossi raccolti in alto dietro a una fascia, gli occhi piccoli e azzurri accesi dello sguardo di sfida di sempre, ci presenta quella che sarebbe stata la sua ultima «intervista», nel documentario AKA Jane Roe. È attraverso quel nome – sinonimo della decisione della Corte Suprema, Roe v. Wade, che legalizzò l’aborto in Usa – che McCorvey ebbe il suo momento di celebrità, prima come eroina della lotta per i diritti delle donne e poi, di colpo, come sua nemesi, quando si tuffò (letteralmente, con foto del battesimo da Newborn Christian) nell’abbraccio della destra evangelica, rinnegando tutto.

Spigoloso, formalmente rozzo e contraddittorio, come la sua protagonista (che però ama Shakespeare, specialmente Macbeth), il documentario prodotto l’anno scorso da Vice Film, non è un oggetto da festival. Infatti, è più sovversivamente affiorato ieri sul canale televisivo FX – postilla di una delle grandi storie americane delle culture wars, che rimane stranamente emblematica del nostro presente, come la contrapposizione tra un’America povera, marginalizzata e poco colta, e quella illuminata delle élite mediatiche e finanziarie delle due coste.

Era stato letto un po’ così, nel 1995, il passaggio di McCorvey «dall’altra parte» -la storia di una donna povera, cresciuta negli abusi e nell’ignoranza, improvvisamente disillusa da un movimento delle donne, incarnatoda due avvocatesse dell’Ivy League che l’avevano «usata» per portare a casa una legge di cui lei non ha mai nemmeno potuto beneficiare (visto che la sentenza della Corte suprema arrivò dopo la nascita di sua figlia). Oggi, mentre quella legge è letteralmente a rischio, in AKA Jane Roe la contrapposizione di sopra rivela i limiti intrinsechi al suo stereotipo. Inopportuna nella sua biografia e nelle sue esternazioni, spesso insincera, poco «mediatica», Jane Roe si rivelò già venticinque anni fa un’eroina non malleabile. Nel film, Norma è un personaggio ancora più complesso di quanto sia stata raccontata finora.

La sorpresa più grossa di questa «confessione sul letto di morte» rimane probabilmente la rivelazione che, in realtà, nella «sua» legge lei non ha mai smesso di credere. «Sono una buona attrice», dice a un certo punto, mentre il documentario ricostruisce non solo la corte spietata che le fece il leader della lobby antiabortista Operation Rescue, Filip Benham (che affittò un ufficio al fianco del consultorio in cui McCorvey lavorava come assistente sociale e la manipolò condividendo le pause sigaretta), ma anche i passaggi di denaro (sempre più esili) tra l’organizzazione la sua nuova star redenta, dopo «la conversione».

«Ho preso i soldi. Mi mettevano davanti a una telecamera. E io ripetevo quello che mi dicevano di dire» afferma McCorvey, che è mancata poco dopo le elezioni del 2016. Se non sorprende poi tanto apprendere (dalle parole di un pastore «dissidente») che le motivazioni della destra evangelica avevano poco a che fare con la religione, o con il desiderio di salvare un’anima persa, e molto con la valenza simbolica di Jane Roe, è più straziante apprendere come Operation Rescue convinse McCorvey a rinunciare alla sua omosessualità e a vivere in celibato con la donna che aveva amato per anni, Connie Gonzales -che comunque si rifiutò di abbandonarla. Intrattabile come eroina, Norma McCorvey è intrattabile anche come vittima -un personaggio di irriverenze grandiose, tragico e molto affascinante.

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