In sala alla proiezione stampa lo hanno fischiato selvaggiamente, nonostante Andrew Niccol, neozelandese hollywoodiano, sia un regista che la critica ha molto acclamato ai tempi di Gattaca. Certo questo Good Kill (chissà perché in concorso), che di quel film ritrova il protagonista, Ethan Hawke, non ha un’impronta «autoriale», anzi appare piuttosto piatto formalmente e nella sua scrittura.

Forse in gara ci sta per il soggetto «forte» che mette al centro della storia, ovvero i droni, i velivoli che si manovrano a distanza nella guerra sporca formato playstation che si combatte col sedere «comodamente» incollato alla sedia mentre da qualche parte del mondo qualcuno muore per davvero. L’amministrazione Obama continua a essere aspramente criticata per l’uso intensivo che ne fa in Medio Oriente, con il pretesto della guerra al terrorismo, e anche Niccol non si risparmia.

Nella base americana di Las Vegas, dove i militari vivono con le famiglie in casette tutte uguali giardino e barbecue, il «videogioco» dei droni puntati sul pericolo terrorista, manda in brandelli un sacco di gente che non c’entra nulla. Sono i danni collaterali, o come dice l’aviere Suarez, unica donna della squadra, un buon metodo per rendere gli Stati uniti, la migliore fabbrica di terroristi del mondo. Protagonista è un tenente, ex pilota con molta esperienze di volo in guerra sugli F-16 – non come le nuove reclute contro le quali sbraita il suo superiore che arrivano direttamente dai centri commerciali – spostato alle unità dei droni.

Il nostro, un Ethan Hawke molto imbambolato, in altri tempi sarebbe stato un reduce, oggi è un impiegato della guerra con crisi d’astinenza dell’adrenalina da combattimento – assai meglio focalizzata da Bigelow in Hurt locker – che mortifica la sua mascolinità. Beve, litiga con la moglie figura opaca sullo sfondo,anzi attaccata solo all’assegno mensile, e più la guerra dei droni si intensifica sotto il comando della Cia – con molti meno scrupoli più del Pentagono – più lui va fuori di testa. Il fatto è che il «nemico», il terrorista lo guarda in faccia nella sua vita quotidiana prima di ammazzarlo, ragazzini, donne, uomini con un volto e una storia quotidiana scoperta nelle ore di controllo, non le cifre da statistica di morti sotto le bombe in Iraq o in Afghanistan (o nei giorni scorsi a Gaza) che mediaticamente non hanno mai diritto neppure a avere un nome, al massimo l’etichetta di «vittime civili».

Comunque. Niccol, usando un lessico non troppo disturbante – pure per i militari più critici Hamas è l’equazione di terroristi – prova anche lui, come molto cinema e tv americani in questo momento, a raccontare in simultanea la Storia, cosa che per esempio ai tempi del Vietnam era impensabile. E soprattutto alza la posta in una scommessa che è quasi un «double ticket», e molto ambiziosa, di una specularità tra «terrorismi».

Terroristi sono quelli che minacciano l’America, ma terroristi coi metodi del drone diventano gli stessi americani.
E inseguendo il terrorista che è in lui, l’eroe/antieroe di turno Hawke si prende la sua rivincita ammazzando il maschio talebano che ogni giorno arriva a casa e stupra la moglie, il fatto che lui ogni tanto provi a menare la sua è accessorio. Lo fa, ovviamente, con un drone utilizzato per un buon fine che gli farà ritrovare il sorriso e probabilmente risolvere i suoi problemi virili – ma la mascolinità sofferente è un altro dei motivi che ricorrono sugli schermi di Venezia 71.

Evviva, certo che questo (brutto) film avrà avuto molte «buone intenzioni» ma il risultato finisce per ottenere l’opposto. In fondo basta ammazzare il «cattivo» giusto per assolversi, a pacificarsi col lato brutto di sé. Gli altri sono pur sempre terroristi no?