Dunque, siamo arrivati alla privatizzazione dei colori. Più o meno. Se li vuoi, devi pagare. Più di quello che già paghi.

L’alternativa? Un mondo in nero. Non in bianco e nero, per usare un’espressione tradizionale, ma solo e soltanto nero. Tutto nero. Scuro.

E’ una storia che va raccontata, allora. Protagonisti due nomi, due “marchi” che conoscono tutti.

Il primo è Adobe, che ormai è diventato sinonimo di quasi tutto il software per la creazione di contenuti multimediali e creativi. E’ il colosso che domina il mercato per ciò che riguarda la gestione delle immagini, l’editing, la creazione di film, video-arte, eccetera, eccetera. Lo conosce chiunque, se non altro per i file pdf.

L’altro marchio non nasce col mondo digitale, c’era anche prima ma ha saputo adattarsi. Si parla di Pantone.

Anche questo un nome conosciutissimo. E’ il marchio di un’impresa fondata esattamente sessant’anni fa da un ragazzo intraprendente, Lawrence Herbert, nel New Jersey. Stanco di lavorare in un anonimo colorificio, si mise in proprio. E subito ebbe l’idea di catalogare tutti i colori del mondo. Nasce così il Pantone Matching System (PMS).

All’inizio ne contò cinquecento (oggi sono più di duemila quelli “primari” e tremila, poco meno, quelli per la moda), assegnando ad ognuno di loro un codice composto da lettere e da un numero. In questo modo, per capire, un imprenditore californiano avrebbe potuto commissionare in India un tessuto di un rosso sfumato – per esempio l’fe5442 – senza dover inviare in trasferta un esperto a controllare.

Lo standard ebbe immediatamente successo, un successo mondiale. Così la Pantone fece parecchi soldi vendendo un blocchetto – i grafici con più anni di lavoro alle spalle la chiamavano “mazzetta” – che raggruppava in una sorta di mini block-notes tutti i colori catalogati. Indicandone il codice.

Poi è arrivato il digitale. Pantone si è quasi subito integrato con Adobe e dopo un po’ – come vuole la storia di tante imprese statunitensi – la società è stata rilevata da uno dei colossi per la produzione di colori e vernici, la X-Rite. Che se l’è comprata nel 2007. Da tempo è stato creato anche un istituto che si dà una veste pseudo-culturale, la Fondazione Pantone del Colore, che ogni anno decide la tonalità “giusta”, adatta al periodo: per i curiosi, il 2023 sarà segnato dal “viva magenta”, una nuova declinazione del rosso. Un rosso molto, molto opacizzato. Quasi una metafora.

Viva Magenta (al centro) è il colore del 2023 secondo Pantone

Comunque sia, dettagli a parte, da decenni, quando si invia “oK” dal nostro computer alla stampante, Pantone entra in azione. Lo sanno tutti – più o meno – come funziona: l’immagine da stampare dallo schermo del computer viene “divisa”, a cominciare dai quattro colori standard, ciano, magenta, giallo e nero, nel linguaggio dei grafici semplicemente “CMYK”. Colori che lavorano per “sottrazione” e che – ovviamente e finché non cambiano le cose – non hanno copyright.

Oltre a questa quadricromia, però, per stampare l’immagine vanno aggiunti altri colori (che, nessuno sa bene perché, vengono chiamati “piatti”). Ed è a questo punto che Pantone “comunica” alla stampante il numero che definisce esattamente quel colore, quello desiderato. Tutti i produttori di hardware, da sempre, devono pagare una royalty per questo meccanismo. Lo prevedono le norme e gli accordi internazionali.

Poi cosa è accaduto? E’ successo che Adobe ha cambiato strategia di vendita. La sua suite, l’insieme delle sue app, costava molto, tanto. Soprattutto nella sua versione per professionisti. Quindi il gruppo ha proposto una soluzione cloud. Non si compra più quel dvd che consente l’installazione sul proprio computer delle applicazioni. Ora la suite la si affitta, sul cloud, sulla nuvola. La si usa quando serve collegandosi al sito di Adobe per parecchie decine di dollari al mese (a seconda delle applicazioni). Sembra poco, rispetto alle centinaia o migliaia di dollari che costa il “pacchetto” fisico ma i guadagni di Adobe sono schizzati alle stelle.

Qui, però, c’è stato l’intoppo.

Pantone ha rivendicato i diritti di copyright anche per gli utenti cloud. Da pagare, mese per mese, assieme all’affitto dei programmi. Altri ventun dollari ogni trenta giorni. Che si usi o meno una stampante. La si potrebbe usare e vuole i diritti sul “suo” meccanismo.

C’è di più. Adobe si vanta che, tramite il suo cloud, l’utente avrà sempre disponibile, immediatamente, l’ultima versione delle app. Succede quindi che il gruppo “aggiorni” i suoi server centrali e tutti gli utenti del mondo avranno per forza la modifica. E se non piace, se la trovano difficile da usare, fatti loro: non possono tornare alla versione precedente.

Siamo così arrivati alla fine: dal prossimo aggiornamento o si pagano anche i 21 dollari alla Pantone o qualsiasi applicazione di Adobe apparirà come un bel foglio tutto dipinto di nero. Poco male, si dirà: si rinuncia ad Illustrator o Adobe Express e si cercano altre soluzioni. Che certo esistono.

Con un problema, però: che anche qualsiasi cosa tu abbia fatto fino ad allora con Adobe, ti apparirà come un bel rettangolo scuro. Nero. Non potrai recuperare nulla delle tue immagini. Si deve pagare, insomma, anche per riprendersi gli arretrati. Si deve pagare per i colori.

Ed allora non è esagerato dire che i colori stanno diventando di proprietà, che stanno diventando privati.

Qualcuno ha provato ad opporsi, a costruire alternative, uno standard di colori “aperto”, non proprietario.

Ma chi ci sta provando, l’Ocs, l’Open Colour Standard, impiegando mezzi, tempo, competenze, spiega che c’è ancora tanto lavoro da fare. Probabilmente troppo.

Così in un’azzeccata metafora, col copyright vince il nero. E per dirla con Cory Doctorow – scrittore di romanzi, giornalista, saggista, uno degli esponenti di punta dell’Electronic Frontier Foundation – “combinando tante cose insieme – cloud, “diritti riservati”, brevetti, tecnologie e scelte politiche – ci stanno rubando i colori da sotto gli occhi”.

Un mondo grigio si diceva fino a ieri. Ora è di più: nero.