A partire dal 2014 molte città hanno introdotto regolamenti che limitano l’affitto breve turistico su Airbnb, principalmente attraverso interventi di zonizzazione e l’adozione di criteri per distinguere tra attività occasionale e imprenditoriale, in base al numero di notti e di alloggi locati. Ma far rispettare le norme locali ad Airbnb si è rivelato finora assai complesso e la partita tra le città e le piattaforme digitali è ancora sbilanciata a favore degli interessi delle seconde, perché le norme che regolano le piattaforme digitali in Europa e negli Stati Uniti sono obsolete. Il tema della responsabilità delle piattaforme è diventato centrale nel dibattito statunitense, anche a seguito della pubblicazione di alcune inchieste giornalistiche. A fine dicembre un’inchiesta del Wall Street Journal ha rivelato che la sollecitazione, da parte di un gruppo di dipendenti di Airbnb, di misure di controllo più stringenti sull’attività e sull’identità dei suoi utenti, come la registrazione con un documento di identità valido (al momento è sufficiente registrarsi con un profilo social), sono state rigettate dai vertici della piattaforma per timore di perdere clienti.

ARMI SPUNTATE
In Europa una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea (causa C390/18) ha confermato l’immunità di Airbnb Ireland rispetto alle azioni dei suoi utenti stabilendo che la piattaforma offre «servizi immateriali». Questi sono regolati dalla Direttiva europea 2000/31 sul commercio elettronico e godono di un regime di particolare favore in cui i margini di intervento per gli Stati membri sono molto ridotti. La sentenza è legata a un ricorso presentato in Francia dall’associazione per l’alloggio e il turismo professionali, secondo cui Airbnb viola la normativa in materia di agenti immobiliari. Per la Corte Airbnb non è un fornitore di servizi materiali ma un semplice intermediario, un «servizio della società dell’informazione», pertanto non necessita di una licenza, come previsto dalla legge Hoguet che regola il settore immobiliare francese. Con questa sentenza le città hanno le armi spuntate per far rispettare a Airbnb le norme locali: una delle conseguenze è l’impossibilità per le città di esigere l’accesso ai dati di Airbnb, anche per eventuali verifiche fiscali. E se Airbnb promette cooperazione con le città e stringe accordi con alcuni comuni, una ventina in Italia, senza la pubblicazione dei dati sugli annunci la multinazionale continuerà a godere di una posizione privilegiata di negoziazione con le città.

A DIFFERENZA DI UBER
Nella sentenza su Airbnb la Corte ha utilizzato due criteri precedentemente elaborati per dirimere una causa riguardante Uber – i quesiti sono diversi ma i test usati gli stessi. Nel primo caso la Corte aveva stabilito che Uber è un servizio di trasporto e non un intermediario perché crea un’offerta di servizi a contenuto materiale e perché esercita un’influenza determinante sulle condizioni della prestazione dei servizi offerti (gestisce il lavoro degli autisti). La sentenza Airbnb stabilisce invece che la piattaforma non influenzerebbe le prestazioni offerte dai suoi utenti, non sarebbe indispensabile per il servizio erogato e, infine, non avrebbe creato una nuova offerta.

I NODI DA SCIOGLIERE
Il giorno dopo la sentenza otto città – Parigi, Bordeaux, Amsterdam, Vienna, Bruxelles, Berlino, Monaco e Barcellona – hanno rivolto un appello alla Commissione Ue chiedendo l’aggiornamento della direttiva sul commercio elettronico. A gennaio 2018 avevano inviato una lettera alla Commissione chiedendo di garantire l’accesso ai dati delle piattaforme. La commissione sul mercato Digitale Unico della Commissione Europea sta elaborando una nuova direttiva, la Digital Services Act, che potrebbe sostituire quella sull’e-commerce, affrontando le questioni di responsabilità, moderazione dei contenuti, condivisione dei dati e controllo delle attività delle piattaforme digitali. Tra i nodi da sciogliere, la responsabilità delle piattaforme della cosiddetta economia collaborativa. Le disposizioni della Digital Services Act potrebbero comprendere norme che regolano i rapporti tra i servizi della società dell’informazione e le autorità pubbliche in materia di accesso ai dati, per motivi fiscali e la gestione di contenuti illegali, secondo un documento interno ottenuto dalla stampa francese.

Per Guido Smorto professore di diritto comparato all’Università di Palermo, è tempo di mettere mano alla direttiva e-commerce: «La libera circolazione di beni e servizi e la realizzazione di un Mercato unico digitale nell’Unione europea sono cruciali per la competitività del nostro sistema economico, ma il perseguimento di questo importante obiettivo strategico non deve realizzarsi in pregiudizio della piena capacità delle autorità locali di garantire l’interesse pubblico». Questa la sfida che la nuova direttiva dovrà recepire se si vuole evitare che le città in Europa diventino il parco-giochi delle piattaforme digitali