È in ritardo con l’appuntamento. «Ero davanti all’Iveco al cambio turno. Parlavo con gli operai, lo faccio sempre. Mi chiedono quando cambiamo la Fornero. Nelle fabbriche di Torino abbiamo i nonni in catena di montaggio». I nonni, Giorgio Airaudo? «I nonni, sì. Uomini che hanno i nipotini. Allungamento dell’età pensionabile. Mi raccontano la fatica, che non ce la fanno più».

Venerdì sera è arrivata conferma della Cassazione alle condanne dei manager ThyssenKrupp per il rogo in fabbrica del 6 dicembre 2007. «La sentenza non restituisce la vita agli operai ma fa giustizia. Dice che le scelte dei manager non sono mai neutre».

Gli operai per Airaudo – 56 anni e tre figlio – sono la famiglia: operaia la madre, operaio il padre, costruiva separatori («macchine che servono a separare un liquido da un solido, olio e trucioli ma anche elementi del sangue»). Lui invece da ragazzo era perito elettronico. E militante della Fgci. Ma presto «mi sono innamorato dei metalmeccanici, e loro mi hanno accolto». Sindacalista Fiom, cursus honorum fino alla segreteria nazionale da braccio destro di Landini. Nel 2013, il salto in parlamento da indipendente di Sel.

Ora è candidato per Torino in comune.

Per un metalmeccanico il sindaco Piero Fassino chi è?

Quello che gli ha detto di votare sì al referendum di Mirafiori. In fabbrica il punto non è Fassino. Vorrebbero che la politica tornasse ad occuparsi di loro.

Perché a Torino il centrosinistra non funziona più?

Perché non ha realizzato le promesse per tutti. Perché si è preoccupato del centro e non della periferia, per la città e per le persone. La grande Torino di cui si parla non è grande per tutti. Ha una produzione culturale che però al suo interno ha stipendi da tre-quattro euro l’ora per i soci-lavoratori delle cooperative o per chi è pagato a voucher.

Questa Torino ha lasciato molti indietro. E il centrosinistra non ha saputo tenere insieme le due città: non ha aiutato i nuovi lavoratori ma neanche difeso i vecchi. Il centrosinistra si è esaurito nella crisi: proprio quando c’era più bisogno di sinistra.

Ma di fronte alla crisi, alla disoccupazione, cosa può fare un comune?

Intanto non può più dire ’io arrivo fino a qui e poi mi fermo’. Le persone chiedono risposte. Oggi serve un municipalismo interventista: il comune deve chiedere più competenze, far sentire la sua voce. Se sei il sindaco di un comune nelle cui fabbriche ci sono i nonni in catena di montaggio devi alzare la voce con il governo. E se è il tuo governo, devi pesare.

Invece Fassino?

Fassino si è integrato nel nuovo corso renziano: si è riciclato per evitare di essere rottamato. A Torino c’è chi tenta di dire ’ma Fassino non è Renzi’. Io differenze non ne vedo. Fassino aveva tutte le condizioni per distinguersi e aiutare la sua comunità. Invece non l’ha fatto. Ha preferito fare l’amministratore di un condominio in cui le decisioni le prende il governo centrale.

Ma per fare solo questo non importa se sei di destra o di sinistra, basta essere onesti e efficienti.

Su Torino ci sono due racconti entrambi sbagliati: il primo è ’abbiamo retto meglio degli altri’, ed è quello di Fassino. L’altro è ’è tutta una catastrofe’: non è vero, qui i cittadini si sono autorganizzati, sono stati aperti doposcuola senza contributi, per dire.

Ma proprio per questo i sindaci devono alzare la capacità di intervento, produrre gesti simbolici e azioni concrete.

Torino dovrebbe diventare ’voucher free’: cioè una città in cui tutto il lavoro pubblico non viene pagato con voucher.Il comune può combattere il lavoro povero introducendo un minimo salariale comunale calcolato sulla media dei contratti di categoria. IlE dovrebbe dire: non accetto ditte che pagano sotto i contratti nazionali.

Così si combatte la logica degli appalti al massimo ribasso: ma il codice riformato dal governo va in direzione opposta. Il comune dovrebbe disobbedire. E dove non ha strumenti deve chiedere le deleghe dirette al governo o alla regione. Un comune non deve dire mai ’non posso’ ma cercare la soluzione.

La candidata sindaca dei 5 stelle, Chiara Appendino, proviene dagli ambienti confindustriali. Ha punti in comune con lei?

Qui a Torino i 5 stelle vogliono essere rassicuranti. Sul tema del lavoro lei si è schiacciata sulla visione imprenditoriale. Parla di incentivi, come ha fatto Renzi. Ma gli incentivi non risolvono. Torino ha la percentuale della disoccupazione giovanile più alta della media nazionale. Una parte è a bassa scolarità, altro record torinese. E poi ci sono gli ultracinquantenni espulsi a causa dei processi di ristrutturazione, troppo giovani per andare in pensione e troppo vecchi per restare a lavoro.

Per affrontare questi problemi dovremmo usare le idee di un illustre torinese che purtroppo ci ha lasciato, Luciano Gallino. Per esempio proponeva che negli appalti pubblici una quota di lavoro sia dedicata a quei giovani e a quei cinquantenni.

Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, è stato sospeso dal movimento. Chi sono oggi i 5 Stelle?

M5S è arrivato al limite dell’ipotesi dell’autosufficienza, che pure è stata stata decisiva per il loro consolidamento. Ora capiscono che non essere disponibili a produrre coalizioni, dunque alternative, è un limite se non hai il 51 per cento.

Al ballottaggio li farebbe votare?

Un passo alla volta, ora dobbiamo affrontare il primo turno.

A Torino il Pd è il partito della nazione?

Fassino si è adeguato alla linea nazionale, l’ha fatto con la lista dei Moderati dove ha imbarcato Comunione e liberazione con il suo leader Silvio Magliano. Poi ha avuto l’endorsement di Enzo Ghigo, ex presidente forzista della regione, e dell’ex Udc Michele Vietti. Ha costruito un centro che guarda a destra.

A sinistra invece, dato le divisioni milanesi e la possibile esclusione del candidato romano, voi a Torino siete l’esperienza riuscita meglio?

C’è una grande domanda di sinistra, ma i gruppi dirigenti vengono da un stagione di arretramenti, sconfitte, trasformismi, frantumazioni e non sempre sono all’altezza. Il percorso unitario è una premessa, ma non basta sommare la sinistra che c’è o che crede di essere di sinistra.

A Torino non abbiamo fatto una sommatoria, ma un’unità dove ci si è contaminati, incontrati, mischiati anche con storie che non stanno nel confine della sinistra, penso a Green Italia e un pezzo dell’ambientalismo. Anche alcune esperienze giovanili: sotto i quarant’anni se dici che sei di sinistra prima ti chiedono cosa vuol dire e cosa vuoi fare.

Mi lasci dire una cosa a Stefano Fassina: ha tutto il mio affetto, nelle difficoltà prima di tutto viene la solidarietà e so quanto lui si identifichi in ciò che ha fatto a Roma unendo la sinistra romana. È un inizio, le nostre liste di alternativa non devono disarmare dopo il voto.

Sinistra Italiana, il partito che lei ha contribuito a fondare, è politicamente meno ecumenico delle ’liste d’alternativa’. Dopo il voto cambierà qualcosa?

Senza Sinistra italiana la mia corsa non sarebbe partita. È bene che dopo le amministrative mantenga un suo percorso ma deve pensare che c’è tutto un mondo intorno. Intanto vediamo cosa diranno le urne. «Torino in comune» non andrà dispersa, avremo un gruppo consiliare e comunque non siamo un cartello elettorale ma uno spazio da mantenere.

La volontà unitaria ci sta già cambiando tutti. Lunedì scorso ho organizzato un’iniziativa con i candidati di sinistra di Bologna, Roma e Milano: hanno tutti intenzione di andare avanti.

Avanti nella direzione di una rete di neomunicipalisti sul modello spagnolo?

I rappresentanti di «Barcelona en comù» ( la lista civica che ha vinto nel capoluogo catalano, ndr) sono venuti a trovarci, e per noi questo è un link importante. L’esperienza spagnola delle undici città ribelli ci aiuta a definire il tema del neomunicipalismo: significa ricostruire la partecipazione dal luogo più vicino alle persone, il municipio, che però deve avere più potere. È anche l’antidoto alle destre europee perché combatte il populismo ricostruendo un’idea di Europa dalle comunità locali, contro le decisioni che calano dall’alto, dove vengono prese con le banche e le lobby.

Il neomunicipalismo è anche l’antidoto per l’abbandono.

Perché posso già dire chi vincerà il 5 giugno: il partito dell’astensione. Qui da noi sarà molto difficile far votare metà dei torinesi.