Tutto per amore, per amore dell’opera, per amore di una donna. Questo il motto scelto da Francesco Micheli, direttore artistico del Macerata Opera Festival, ormai arrivato alla sua cinquantesima edizione, a partire dal 1921, quando l’arena Sferisterio, in origine destinata al gioco popolare del pallone col bracciale, fu convertita dal conte Pier Alberto Conti in teatro all’aperto con una rappresentazione di Aida di Giuseppe Verdi, che vide come protagonista l’amata moglie Francisca Solari. Nell’album di questo matrimonio giunto indenne alle nozze d’oro «emergono volti, nomi, stralci di vita di palcoscenico da far rabbrividire chiunque conosca e ami l’arte lirica»: artisti del calibro di Beniamino Gigli, Mario Del Monaco, Luciano Pavarotti, Montserrat Caballé, Placido Domingo, Renato Bruson, Katia Ricciarelli, allestimenti leggendari come l’iconoclasta Bohème di Ken Russel (’84), la Traviata degli specchi di Svoboda (’92) e la Turandot della sfera di fuoco di Hugo de Ana (’96).
Il palco, lungo 88 metri, è croce di direttori avvezzi a esecuzioni cameristiche e registi amanti di allestimenti raccolti, delizia degli ambiziosi e audaci che sanno lavorare sulla grandeur, dove diventano possibili artifici visivi che nel classico palcoscenico teatrale, interamente dominabile dallo sguardo dello spettatore, non lo sono. L’acustica è impietosa: l’enormità ellissoidale dell’arena tende a fagocitare il suono dell’orchestra e le voci non abbastanza potenti e timbrate, cosicché ogni debolezza di emissione equivale al silenzio, ogni nota non perfettamente centrata a riverberi di stonatura. Cosa resta del glorioso passato? I pochi denari lasciati dalle gestioni precedenti talvolta sconsiderate e da finanziamenti pubblici che, dal 1973, quanso lo Sferisterio è stato riconosciuto come teatro di tradizione, sono andati sempre più assottigliandosi. E certamente un grande desiderio di fare di necessità virtù, realizzando spettacoli con budget risicati, puntando sul talento sconosciuto e sulla novità, ideando stagioni con titoli popolari ma fili conduttori inediti.
Quest’anno il titolo è L’opera è donna, per portare sul palco creature che «esistono, sono nelle nostre strade, vivono accanto a noi, lottano e soffrono in silenzio violenze, migrazioni, prevaricazioni». Perciò, in successione cronologica, Traviata (1853), Aida (1871), Tosca (1900), tre classici intramontabili: una cantante romana che fa di tutto per salvare il suo compagno politicamente perseguitato, una prostituta parigina pronta a redimersi ma stritolata dalle maglie di una società bigotta che non perdona, una principessa etiope divenuta schiava del faraone egiziano che ha sterminato il suo popolo. Tre racconti spregiudicati: una storia in cui una «puttana deve essere sempre puttana», una principessa col «diavolo addosso» che inveisce contro la ferocia della casta sacerdotale, un grand guignol con sevizie, tentati stupri, accoltellamenti e fucilate in scena.
I tre allestimenti sono molto diversi. Per Traviata viene riproposto quello già menzionato del ’92 con scene e luci del compianto Josef Svoboda, che creano un equilibrio perfetto tra la mondanità e l’intimismo della storia, catturando l’occhio dello spettatore in un gioco raffinato in cui fondali dipinti sono sdraiati sulle assi del palco e al loro posto, in verticale, c’è un enorme specchio che li riflette inglobandovi, come in un tableau vivant, attori e arredi. Tutti gli snodi drammatici e le sfumature dell’opera sono risolti egregiamente, mentre la regia di Henning Brockhaus, morbida e sobria, si mette con successo al servizio dell’idea scenografica. Quello di Aida, con la responsabilità di inaugurare la stagione collegandosi idealmente alla maestosa inaugurazione del 1921, fa piazza pulita della tradizione: la regia dello stesso Micheli trasforma la marcia trionfale di soldati, sacerdoti, carri e vessilli, elefanti ecc. in una coreografia hip-hop in uno spazio vuoto dove nove danzatori-robot mimano la guerra combattuta e vinta dagli egizi sugli etiopi; al posto della tradizionale cartapesta un continuo gioco videoproiezioni e colori; al posto di armature e stoffe intarsiate Silvia Aymonino ha disegnato abiti bianchi decorati con stampe di geroglifici neri che ricordano i graffiti metropolitani di Keith Haring; come scenografia Edoardo Sanchi ha ideato un enorme laptop (materializzazione del Libro dei Morti, testo sacro degli Egizi). Quello di Tosca, il meno riuscito dei tre, vorrebbe emulare la già menzionata Bohème dell’84, ma Franco Ripa di Meana non è Ken Russel e non basta ambientare i tre atti in tre epoche successive (XVIII, XIX e XX secolo) per coprire la mancanza di un’idea interpretativa forte e soprattutto la deprecabile indifferenza ai dati del libretto.
Vera rivelazione, le tre bravissime direttrici, capaci di ottenere dall’Orchestra Regionale delle Marche suoni pastosi e raffinati: per Aida la già affermata Julia Jones, inglese, direttore ospite alle Staatsoper di Berlino e Vienna; per Tosca la coreana Eun Sun Kim, che ha debuttato a Madrid nel 2010; per Traviata la romana Speranza Scappucci, già maestro collaboratore di Riccardo Muti, Zubin Metha, Seiji Ozawa. Tra i cast vecchie glorie cui la solidità della tecnica permette di affrontare grandi ruoli (Fiorenza Cedolins, Sonia Ganassi, Giacomo Prestia) e giovani promettenti che quella solidità devono costruire (Sergio Escobar, Susanna Branchini, Luciano Ganci, Jessica Nuccio, Antonio Gandìa).