Uno “Stato di guerra” ai diritti umani, alle libertà fondamentali e all’informazione. La Turchia di Erdogan licenzia magistrati e perseguita avvocati, zittisce quotidiani e spegne tv, militarizza le città e dilata il coprifuoco anche sulla costituzione turca.

«Con i responsabili dei consigli dell’ordine radiati e i colleghi in carcere, ma anche con 191 giornalisti detenuti (su 348 nel mondo), 92 ricercati e 839 indagati non possiamo far finta di nulla», sottolinea Leonardo Arnau dell’esecutivo nazionale dei Giuristi Democratici. Insieme ad Articolo 21 Veneto hanno organizzato nella prestigiosa sala della Carità il convegno “La tutela dei diritti nello stato d’emergenza: il caso Turchia. Diritto di difesa e libertà di informazione”.

È stata l’occasione per consegnare a Barbara Spinelli il riconoscimento dei colleghi turchi e internazionali, dopo che il 13 gennaio era stata espulsa proprio perché relatrice del convegno di Ankara dedicato allo stato d’emergenza.

«Dal 2014 abbiamo visto con i nostri occhi di osservatori internazionali l’utilizzo perverso del diritto penale e lo svuotamento della democrazia in Turchia. E dall’imminente referendum sulla “riforma” costituzionale rischia di uscirne con un depotenziamento degli organi statali e con la concentrazione dei poteri di nomina e controllo solo nelle mani del presidente», afferma Spinelli.

Al convegno di Padova ci si è concentrati sullo scenario attuale nel regime di Erdogan, ma anche sulle conseguenze che comporta soprattutto in Europa. La sospensione, di fatto, dei diritti più elementari ha già prodotto effetti eclatanti: morti e detenuti, ritiro dei passaporti e congelamento dei beni ai “sospetti”, stato d’emergenza permanente. E si profila la reintroduzione (perfino retroattiva) della pena di morte con una sorta di ulteriore miccia nella santabarbara fra Iraq, Siria e Rojava.

«Alcuni accademici sono stati recentemente arrestati soltanto per aver sottoscritto un appello per la libertà di espressione» testimonia Serife Ceren Uysal, l’avvocata del foro di Istanbul che ha ripercorso in dettaglio l’imbarbarimento del suo paese fino a incarnare l’incubo del fascismo sunnita fra l’Ue e la Russia.

Emblema della parabola che attanaglia la Turchia resta Abdullah Ocalan, il leader del Pkk curdo arrestato nel 1999 a Nairobi. Da allora è detenuto nell’isola-prigione di Imrali. Delle 17 mila pagine del suo dossier non ne ha potuto leggere una. In 18 anni di detenzione non ha mai incontrato un familiare. Le visite dei suoi legali sono, quando va bene, limitate a un’ora (registrata, a beneficio di denunce penali…).

«Dopo il golpe a tutti i detenuti viene applicato il “metodo Ocalan” e l’intera Turchia è diventata Imrali», tuona Mahmut Sakar, difensore di Ocalan costretto a riparare in Germania.

«Non lo incontro dal 27 luglio 2011 e non abbiamo nemmeno potuto, come avvocati, sottoporgli il ricorso presentato alla Corte europea dei diritti umani e al Comitato contro la tortura. Nel 2014, era stata inoltrata alle autorità competenti la richiesta di due colloqui a settimana. Ebbene, tutte negate perfino con la perfidia di motivazioni pretestuose: 9 per brutto tempo, 86 per guasti alle navi di collegamento con l’isola, 6 per la manutenzione delle imbarcazioni, 3 perché giorni festivi…».

Il destino di Ocalan nella Turchia di Erdogan è così sempre più appeso a un esile filo. Soprattutto se l’opinione pubblica internazionale non si lascia distrarre dagli agreements dei governi dell’Ue in materia di migranti.

«Fra tre mesi il referendum costituzionale sarà sul nuovo fascismo. La vittoria di Erdogan sarebbe non solo la grande sconfitta dei curdi, ma la guerra oltre il Medio Oriente. Erdogan non vuole entrare in Europa, tant’è che sta rafforzando i rapporti con Putin. La Turchia non è più quella che pensano i leader della Ue che la volevano conquistare: se mai, è diventata il problema dell’Europa», conclude Sakar.

E proprio il convegno di Padova ha rafforzato l’impegno assunto da European association of Lawyers for Democracy and Human Rights sulla Turchia: «Oggi nessuno può sostenere che i problemi economico-politici di qualsivoglia luogo siano problemi che riguardano solo quel luogo. Che si tratti di stato di emergenza, legge marziale, pratiche antiterrorismo, peggioramento del sistema giudiziario, democrazia, accesso alla giustizia. A prescindere dalla loro gravità e collocazione geografica, sono problemi di tutti noi».