«Il romito dice con grande evidenza che gli uomini sono fatti della stessa stoffa del mondo, che tra umano e vegetale c’è continuità non opposizione … Nel film è protagonista di un’inversione tra il regno umano e quello vegetale che porta quest’ultimo a conquistare il primo piano …». Satriano, Lucania, tra le fronde del bosco si dischiude l’aurora. È lì, in quel paesaggio antico, fuori dal tempo, su cui il presente appare quasi inatteso, che Michelangelo Frammartino ha realizzato Alberi – in prima italiana, e speriamo con tappe future, fino a domani 8 dicembre al cinema Manzoni di Milano. Un nuovo segmento di quell’atlante del sud d’Italia che prende forma nei film del regista di Le quattro volte, dove il racconto, o la reinvenzione di riti e figure di tradizioni arcaiche, diviene il mezzo per interrogare (e scuotere) la natura stessa delle immagini. A cominciare proprio dalla scelta del luogo dove è presentata l’opera, un cinema chiuso da anni, che è stato riaperto per l’occasione, e che appare oggi come l’archeologia di un passato cinematografico ormai lontano.

Gli affreschi angelici del soffitto e i tappeti di un rosso opaco ci conducono nel buio della sala: un altro mondo. Fruscii di foglie, cinguettii di uccelli. La vegetazione sembra oltrepassare lo schermo, scivolare tra le sedie, toccare la radura verde che ha preso il posto delle prime file. I romiti erano nel medioevo gli uomini-albero che coperti di edera si aggiravano nei paesi chiedendo l’elemosina. Erano figure solitarie, la cui presenza si rintraccia in tutta Europa; battevano alla porta con un pungitopo, la maschera gli permetteva di rimanere anonimi e di non essere così umiliati. Col tempo sono scomparsi, risucchiati dall’oblio …

All’inizio non li vediamo, c’è solo la vegetazione, respiro del vento e respiro umano si fondono tra il fogliame. Poi piano piano qualcosa si muove, gli uomini-albero si alzano, si cercano, cominciano a marciare nella valle che separa il bosco dal paese. Dall’alto gli umani li osservano, ne attendono la venuta. Arrivano uno dopo l’altro, a gruppi, tutti insieme, la piazza del paese si trasforma in un nuovo bosco …

Frammartino ha riportato in vita il rito, di cui si conservano tracce nel carnevale, con cento persone di Armento, un antico borgo lucano, ma il suo lavoro di messinscena è all’opposto delle ricostruzioni storiche. La potenza di Alberi infatti non è nella sua funzione di memoria, che pure esiste ed è importante, e lo sguardo di Frammartino è alieno anche dalla nostalgia e dal romanticismo del «naturale». È piuttosto l’idea di un confine, di una soglia tra umano e vegetale la scommessa del suo lavoro, ed è su questa bordo che pone le sue immagini per interrogarle, e con loro noi spettatori. Alberi è un’esperienza sensoriale in cui ogni componente assume una funzione narrativa a sé mutando le abitudini della nostra percezione. Suoni, rumori, immagine, spazio, tempo: la sostanza del cinema, e dell’immagine, si espande dai suoi confini abituali, in una fruizione all’interno della quale ciascuno di noi spettatori è libero di trovare il proprio spazio. Il sottotitolo dice: «cine-installazione». La ciclo dell’opera è la sua forma aperta, il movimento del suo essere che non può ricondursi alla linearità filmica classica, ognuno nel loop può decidere il proprio inizio e la propria fine, entrare e uscire senza l’obbligo della continuità, come era nei vecchi doppi spettacoli quando si poteva liberamente passare da un «b-movie» al programma successivo. Ma «rompere i confini» tra film e spettatore nella ricerca di Frammartino va, appunto, ancora oltre quelle che sono un’esigenza, e una pratica, poste dall’idea di visione fuori dalla sala, cosa che qui avviene dentro la sala stessa.

L’irruzione del vegetale nel quadro, attitudine condivisa con una ricerca di immaginario contemporaneo (penso a un regista come Apichatpong Weerasethakul), ne stravolge radicalmente la prospettiva. L’uomo non è più al centro (come gli angeli del soffitto del cinema), e il landscape, il paesaggio che ne deriva perde la connotazione emozionale, di un sentimento che lo ha già rielaborato, reso umano nell’idillio come nella tempesta. È qualcosa che precede, qualcosa di fuori controllo – seppure controllatissimo – che costringe il mezzo e l’occhio a uno scarto. In quel guizzo improvviso tutto esiste, Storia, tradizione, passato, presente. E insieme è libero dalle costrizioni, in un orizzonte che è ancora possibile inventare.