«Dovrebbe finire i suoi giorni dentro a una cella». È questa punizione che il ministro dell’istruzione e leader ultranazionalista israeliano Naftali Bennett infliggerebbe alle 16enne palestinese Ahed Tamimi, arrestata nella notte di lunedì nella sua abitazione. La ragazza si è macchiata di un omicidio o ha fatto uso di armi? No, ma qualche giorno fa ha schiaffeggiato e sferrato un calcio a due soldati israeliani entrati nel suo villaggio, Nabi Saleh. Una «aggressione» ripresa con uno smarthphone e finita in rete, dove il filmato è diventato virale. Ieri è stata arrestata anche la madre Nariman. Ahed è una «provocatrice di professione» ripetono i media israeliani assieme ad esponenti politici e delle forze armate. Due anni fa, dicono, con l’aiuto della madre e usando le maniere forti, strappò il fratello dalle mani di un soldato. Qualche tempo prima aveva dato un morso a un militare. “Reati” che, invocano tanti in Israele, meritano una punizione esemplare. «È assurdo che Ahed sia stata arrestata. Soldati e poliziotti sono arrivati nel cuore della notte armati fino ai denti, come se ci fosse da catturare pericoloso latitante», ci diceva ieri Basem Tamimi, il padre della ragazza e noto attivista della lotta popolare contro il Muro israeliano in Cisgiordania che nel villaggio di Nabi Saleh va avanti da anni. «Ahed era molto scossa – spiegava Tamini il filmato apparso sui social – venerdì scorso un soldato ha sparato un proiettile di gomma ferendo alla testa suo cugino Mohammed che ora è in gravi condizioni. Mia figlia è molto forte ma è pur sempre una ragazzina e chiedo la sua scarcerazione immediata».

Comunque finisca, Ahed Tamimi, è ora uno dei giovani simboli della sollevazione palestinese nei Territori occupati innescata dal riconoscimento fatto da Donald Trump di Gerusalemme come capitale di Israele. In rete è partito un appello per la sua liberazione e Twitter e Facebook sono stati inondati nelle ultime ore di notizie, foto e filmati sulla ragazza. Messaggi in suo sostegno sono giunti da ogni angolo del mondo arabo che sembra riscoprire la questione palestinese dimenticata in questi anni di “primavere arabe”, Isis e conflitti in Siria, Yemen e Iraq. In un documentario la ragazza arrestata dice di amare lo sport e racconta del suo sogno di diventare una calciatrice. «Ma c’è l’occupazione israeliana, senza i permessi degli israeliani non possiamo fare nulla e non riesco a vedere il mio futuro», aggiunge Ahed indicando un insediamento coloniale israeliano a breve distanza da Nabi Saleh.

«Ahed è un simbolo ma lo è ormai anche Ibrahim Abu Thuraya. La sua uccisione venerdì a Gaza ha scosso tutti i palestinesi e milioni di arabi», ci dice Nasser Atta, un giornalista, riferendosi al disabile palestinese colpito alla testa da un proiettile mentre partecipava a una manifestazione nei pressi della linea di demarcazione tra Gaza e Israele. «Nell’offensiva israeliana ‘Piombo fuso’ di nove anni fa – ricorda Atta – un missile sganciato israeliano spezzò le gambe a Ibrahim. Da allora viveva su di una sedia a rotelle ma lui non si era perduto d’animo, era sempre molto attivo». Le foto apparse in questi giorni mostrano immancabilmente Abu Thuraya con in mano la bandiera palestinese sulla sua sedia a rotelle o nelle campagne a ridosso del confine. Israele nega di averlo ucciso. L’esercito ha chiuso due giorni fa la sua inchiesta dichiarando di «non aver sparato intenzionalmente al palestinese disabile» e di non «potere determinarne la causa della morte». Una spiegazione inaccettabile per i palestinesi che insistono su una pallottola sparata dalle postazioni militari israeliane in una giornata di sangue che a Gaza e in Cisgiordania ha visto l’uccisione di quattro palestinesi e il ferimento di altre decine.

Virale in rete è anche l’immagine di un ragazzo bendato e circondato da due dozzine di soldati israeliani prima di essere detenuto. Quel ragazzo arrestato a Hebron per aver lanciato pietre ai soldati, durante le proteste del 7 dicembre contro la dichiarazione di Trump su Gerusalemme, è Fawzi al Junaidi, 16 anni. È in carcere, a Ofer, alla periferia di Ramallah. «Per una settimana è scomparso nel nulla» racconta il padre, Mohammad, «poi abbiamo saputo che tra qualche giorno sarà processato. Non siamo ottimisti, gli israeliani non lo libereranno». Per i palestinesi Ahed, Ibrahim e Fawzi sono l’espressione più alta di una rivolta di cui sono protagonisti i giovani e che ricorda sempre di più la prima Intifada, quella del 1987 popolare e spontanea.