«Bartfuss, il sopravvissuto, ha inghiottito tutta la Shoah, ce l’ha dentro, nelle fibre del corpo. Beve il “nero latte” del poeta Paul Celan, mattina, pomeriggio e sera. Non ha nulla di più di chiunque altro, ma non ha ancora perso il suo volto umano. Niente di che, ma meglio di niente». Sono le parole conclusive della conversazione che Aharon Appelfeld ebbe con Philip Roth nel 1988, poco dopo la pubblicazione del suo L’immortale Bartfuss (ora tradotto da Elena Loewenthal per Guanda, pp. 160, € 16,00), tra i più stupefacenti e commoventi romanzi dello scrittore israeliano nato in Bukovina nel 1932. Un ritratto di superstite tra superstiti, una ricognizione dell’incomunicabilità della sopravvivenza allo sterminio, senza uscite, senza redenzioni: non la consolazione dell’appartenenza sionista o religiosa, e nemmeno la testimonianza.

Della deportazione e dei campi non viene fatta parola, si sa solo che Bartfuss è considerato dalla comunità dei reduci un eroe, sopravvissuto con cinquanta proiettili in corpo. La sua solitudine è punteggiata da incontri casuali nelle strade e nei caffè di Giaffa, Tel Aviv o Netanya. Figure indistinte, portatrici di significati che svaniscono come ombre nei risvegli, lame di luce su parole svuotate. «”Il tuo viso mi dice qualcosa”». «”Eravamo insieme al magazzino, non ricordi?” “Strano. Tutti si ricordano di me”». «”Mi sembra di conoscerti. Aiutami a ricordare”. “Non ricordo”». «”Non mi riconosci? Mi chiamo Lili, una volta abbiamo passato una notte insieme”. «”È un errore”». «”Allora sei tu, a Napoli ti chiamavamo l’immortale».

Una ostinata malevolenza
Agnizioni dolenti come una nausea, che rendono il gesto di riconoscere ed essere riconosciuti un’impudicizia prossima al tastare i vestiti che coprono la piaga, da cui non ci si può che ritrarre. E tuttavia spiragli su una paradossale libertà perduta, subito richiusa dalla scoperta che le persone hanno subito metamorfosi inspiegabili. «Via via si rafforzava in Bartfuss la certezza che il Dorf in cui si era imbattuto non era Dorf. Dorf era morto nei boschi. Quello che vagava ancora non era che il suo spirito maligno». Così come il bel Sher, Sher il temerario, che durante la guerra aveva compiuto straordinarie imprese di sabotaggio, ora somigliava a un mercante diffidente.

La città stessa appare una costruzione teatrale, una finzione eretta in riva a un mare spettrale, dove le comparse si incrociano in brevi dialoghi che nulla dicono di una vicenda alla quale è stato sottratto il punto focale, la Shoah. A notte, Bartfuss torna a casa, un modesto appartamento al piano terra con due alberi rigogliosi sulla soglia. Ha una moglie e due figlie concepite in un campo di transito italiano per i reduci dai Lager nazisti, quando tutto era ancora sospeso in una terra di mezzo, una tregua tra l’abiezione dei campi e la promessa di una nuova esistenza in Israele. Tra loro vige un’ostinata malevolenza che si traduce in ostracismo linguistico. In famiglia lo chiamano «lui».

Negli anni, la madre ha insegnato alle figlie a diffidare del padre e a stargli lontano. «Ora anch’esse appartengono a regioni inaccessibili della sua vita». Le rimostranze, le preghiere, le accuse della donna che Bartfuss «una volta chiamava Rosa», lo inducono a chiudersi sempre di più, simile a un animale braccato e vigile, diffidente, pronto alla fuga. «Col tempo aveva forgiato una specie di lapidario lessico del rifiuto, monosillabi di difesa». La figlia grande è sposata, e la moglie – in una separazione che sembra ripetere quella tra campo maschile e campo femminile – condivide il letto matrimoniale con la figlia minore, ritardata, «creatura inferma e ammutolita di cui si parlava usando il pronome “lei” come di un fardello ingombrante».

Bartfuss trova riparo nella sua stanza, spoglia quanto una cella, certo di essere spiato, indagato, scrutato, funestato dalla continua richiesta di dividere il suo tesoro nascosto. Fin dall’infanzia, Rosa ha inculcato nelle figlie l’idea che il padre possegga una fortuna e che rifiuti di spartirla con loro, costringendole a vivere nelle ristrettezze. Quando non è in casa, le figlie, la moglie e il genero frugano nell’armadio, scuotono le coperte, cercano nel materasso, nelle tasche. Bartfuss immagina la loro delusione: neanche un soldo. Il tesoro è sotterrato in cantina: un poco d’oro, qualche migliaio di dollari, due collane, qualche orologio, alcuni quadri di sua madre, la foto del passaporto di suo padre e una piccola foto – della scuola probabilmente – di sua sorella. «Questi beni erano ciò che aveva di più caro. A essi dedicava i suoi pensieri più belli, come a una donna amata».

Non aveva più nessun amico in città e, non fosse stato per il nascondiglio a cui rivolgeva gran parte delle sue fantasticherie, «la sua vita sarebbe stata un deserto desolato». L’idea che il tesoro fosse al sicuro, sottoterra, gli procurava piacere, così come il non aver mai raccontato alla moglie del suo passato. «Rosa un tempo lo aveva tormentato: raccontami qualcosa, solo a me. Lui non l’aveva fatto. Il pensiero di non aver raccontato nulla nemmeno a lei talvolta lo metteva di buon umore».

Il tesoro custodito con tanta cupidigia è fatto dai fili di storie del passato, esili, scolorite, sfilacciate e strappate, eppure preziose nel dare realtà al disegno per lo più svanito dell’arazzo di immenso orrore della morte scampata, delle famiglie inghiottite, della catastrofe dell’umano.

L’uomo non è un insetto
Bartfuss in ebraico significa immortale, «figlio della non morte», avverte la traduttrice nella nota introduttiva, ma è difficile non percepire una cupa ironia che allude all’ebreo eterno, Der ewige Jude, figura centrale della propaganda nazista che dipingeva gli ebrei alla stregua di esseri subumani e degenerati, inestirpabili quanto un’essenza maligna.

L’immortale Bartfuss si aggira nella vita senza viverla, nascondendo come una vergogna la cancrena suppurata che ha fatto ammalare di sé il mondo. È risvegliato da abissi di compassione, ma quando vuole curare lo fa con mani maldestre, senza capacità di lenire, nemmeno di farsi capire. È un essere greve circondato da esseri grevi, spezzati e indecifrabili, preso nella morsa di un senso di colpa che finisce col diventare, kafkianamente, atto di accusa contro se stesso. Eppure una frase si fa strada nella coscienza. «Le persone che sono state nei campi non tradiranno mai i loro debiti. Ci sono debiti sacri. L’uomo non è un insetto».

Tornano alla mente le parole che lo scrittore ungherese Imre Kertész, sopravvissuto ad Auschwitz, pronunciò nel discorso del Nobel a proposito del tono spezzato che per decenni ha dominato l’arte moderna in Europa: «Come se uno, rotto e irresoluto, si guardasse attorno nel mondo dopo una notte di incubi». Di questa figurazione della scrittura e di ogni forma di arte dopo la Shoah, Appelfeld ha fatto un personaggio; il più abissale, infranto e irresoluto dei personaggi, perso nella finzione di un’impossibile normalità, spaventato e desideroso al tempo stesso di vicinanza umana, incapace di conservare, distribuire, donare o dissipare l’oscuro tesoro di cui è portatore.