Ho incontrato Isabelle in un’affollata sala conferenze di Bruxelles mentre parlava alla platea silenziosa di agroecologia in Belgio. Capelli corti e grigi, piccola e minuta, Isabelle è fiera del suo lavoro: fa l’allevatrice di bovini. Le sue vacche Blonde d’Aquitaine, originarie della regione sud occidentale della Francia, sono libere di pascolare nelle Ardenne di Rossart. Isabelle, davanti ai tanti arrivati da tutto il paese per il primo incontro sulla transizione agroecologica, ci tiene a raccontare la sua storia. Da impiegata di banca a giornalista, ha attraversato diversi mestieri prima di dedicarsi all’allevamento. Non è un lavoro ma una scelta di vita, come lei stessa lo definisce. La decisione di Isabelle risale al 1994 quando lei e suo marito hanno comprato una fattoria e hanno cominciato il lavoro di allevatori in armonia con la natura. «Le mie vacche sono libere di muoversi, passano nella stalla solo i mesi invernali, per il resto del tempo mangiano nei pascoli», mi spiega. Quello che mi ha colpito del suo discorso è stata l’energia con cui ha sostenuto la sua scelta di allevamento estensivo. Un anacronismo se pensiamo alle stalle di cui è costellata la nostra pianura padana. «Le mie vacche mangiano erba, e d’altronde mi chiedo: perché mai dovrebbero mangiare altro?» Il foraggio invernale è il fieno raccolto nelle praterie durante l’estate. Ogni pascolo è diverso, composto dalle piante spontanee. Nulla viene seminato perché le monocolture impoveriscono il terreno e appiattiscono anche l’alimentazione delle mucche, costringendo gli allevatori ad integrare la dieta con mangime prodotto industrialmente. Isabelle non compra nulla, ha tutto quello che le serve. Nei prati crescono spontaneamente leguminose e cereali, oltre a fiori ed erba: «Quando sistemo il foraggio invernale per le mie bestie riesco ad individuare esattamente da che prato arriva: ne riconosco gli odori». Il sistema su cui si basa l’attività di Isabelle è quello dei pascoli permanenti che mantengono la fertilità dei suoli, favoriscono la presenza di specie locali adattate all’ambiente, moltiplicano la biodiversità delle piante e degli animali oltre a valorizzare il paesaggio.

Isabelle non è l’unica in Belgio ad aver deciso di allevare seguendo i principi dell’agroecologia che prevedono una forte correlazione tra agricoltura, allevamento e ambiente circostante. L’agroecologia rimette in discussione le tecniche agricole e il rapporto con la natura, garantendo la varietà, la fertilità dei suoli, rinunciando ai pesticidi e agli antibiotici. Disciplina scientifica, pratica agricola e movimento sociale: l’agroecologia si oppone al sistema dominante basato sull’agricoltura convenzionale ad alti input per puntare verso una rivoluzione del sistema produttivo, della filiera e dell’alimentazione. Secondo i dati riportati dalla regione francofona della Vallonia gli allevatori biologici sono più di 700. Sono sempre più numerosi coloro che garantiscono l’autonomia alimentare alle loro mandrie, producendo il foraggio di cui hanno bisogno gli animali. Molti allevatori sono tornati, dunque, a fare anche gli agricoltori. Applicano la rotazione dei terreni per assicurare il riposo e l’arricchimento dei suoli, utilizzano il concime naturale prodotto dai loro animali e scelgono razze che ben si adattano all’ambiente.

Per arrivare alla fattoria di Vincent, 25 anni, percorro una stradina stretta e tortuosa che mostra un paesaggio multicolore, fatto di prati e campi coltivati. In cima ad una breve salita in terra battuta si trova la Chevrerie de la Croix de la Grise, un’azienda agricola biologica che produce formaggio di capra nelle campagne di Tournai, al confine con la Francia. Vincent è nell’ampia stalla in cemento dove le sue 75 capre soggiornano durante l’inverno. Tutto intorno i pascoli. «23 ettari sono sufficienti per alimentare le capre, produrre il foraggio per l’inverno e garantire il fabbisogno familiare». Vincent ha sempre saputo di voler fare il contadino e di volerlo fare in modo sostenibile. Quando ha dovuto scegliere l’università ha deciso di studiare scienze politiche, perché il mestiere di agricoltore si impara sul campo ma il contesto globale in cui si opera bisogna conoscerlo bene. Per Vincent è stato naturale rendersi indipendente dall’industria, smettere di acquistare i mangimi e la soia e ridurre il numero di animali per garantire la sostenibilità economica dell’azienda. Vincent, nonostante la sua giovane età, partecipa attivamente ai movimenti contadini, come delegato di Via Campesina in Europa. Il percorso di transizione dal convenzionale alla produzione equilibrata di oggi è stato lungo e difficile. Vincent si ritiene fortunato perché i suoi genitori sono stati tra i pionieri del biologico, quando ancora nessuno percorreva quella strada. Essere bio però non era facile: per lungo tempo sono rimasti legati all’industria per l’acquisto dei mangimi e alla grande distribuzione per la vendita del latte. Adesso la trasformazione avviene nel piccolo laboratorio adiacente alla stalla e la vendita a filiera corta, localmente. L’allevamento di vacche da latte, che possedevano in passato, necessitava una stalla molto grande, centinaia di capi e quintali di foraggio e mangime da acquistare. «I prezzi che ci imponeva l’industria erano bassi, producevamo sempre troppo poco ai loro occhi e più volte abbiamo perso il contratto, trovandoci a mani vuote», spiega Vincent. “Quando sei un piccolo produttore l’industria ti spinge ad ingrandirti, e anche noi ci abbiamo provato” racconta il giovane contadino belga. «Abbiamo aumentato la nostra mandria di vacche da latte prima e, in seguito, siamo arrivati fino a 220 capre. Non potendo ampliare la superficie coltivata abbiamo dovuto moltiplicare le quantità di mangime acquistato». Gran parte del mangime industriale proviene da monocolture ed è composto da mais e soia, di cui Vincent sottolinea l’impatto nefasto sull’ambiente. «Saremmo stati sempre più dipendenti dall’industria, senza un vero guadagno», sostiene. Sono stati questi fallimenti a spingere la famiglia Delobel a ripensare radicalmente la sua attività. Come mi spiega Vincent, il percorso intrapreso dalla sua fattoria sta diventando sempre più comune tra gli allevatori belgi: l’autonomia nella produzione del foraggio, la riduzione dei capi di bestiame, la valorizzazione dell’erba e la trasformazione diretta del prodotto.

Daniel fa tutto da solo nella sua fattoria biologica, a pochi chilometri da Liegi. Due volte al giorno munge le sue 50 vacche, raccogliendo circa 400 litri di latte giornalieri. La mandria è composta da un misto di razze: l’importante è che non soffrano il freddo e che siano produttrici di latte. «Le mie vacche stanno fuori tutto l’anno, se ne hanno voglia, anche quando nevica», spiega Daniel, mostrandomi l’ampia stalla e una superficie esterna ricoperta di paglia. «Da quando possono sdraiarsi sulla paglia e godersi i raggi del sole fanno più latte», racconta Daniel, descrivendo come la paglia calpestata dagli animali diventi un ottimo elemento per arricchire i suoli naturalmente. La stalla è stata costruita in modo da ottimizzare al massimo il calore del sole, ridurre l’impatto dei venti freddi e in modo da garantire una temperatura costante all’interno, mantenendo areata la struttura. Anche Daniel, come gli altri allevatori che ho incontrato, produce direttamente quello che poi darà da mangiare alle sue vacche: avena, farro, fave e orzo. La sua scelta è di seminare piante differenti nello stesso campo, permettendo l’interazione, arricchendo il suolo, valorizzando la biodiversità e ottenendo un raccolto già equilibrato dal punto di vista nutrizionale. Il letame prodotto dagli animali viene raccolto in una cisterna e utilizzato come concime sui campi. «Niente è uno scarto, tutto ha un valore per il funzionamento della fattoria», sostiene. Oltre al suo lavoro, Daniel trova il tempo anche per spiegare le sue tecniche agricole ai colleghi allevatori che vogliono iniziare un processo di transizione, abbandonando il convenzionale.