I contadini possono essere i nuovi alleati della moda per avere tessuti rispettosi dell’ambiente. Ne è convinta l’associazione Donne in Campo della Cia-Agricoltori Italiani che ha registrato il marchio «agritessuti» con l’intendimento di creare una filiera del tessile Made in Italy 100% ecosostenibile e che utilizzi tessuti naturali – partendo per esempio dalla canapa o dal lino – e tinture realizzate con prodotti e scarti agricoli, come le foglie del carciofo bianco, le “tuniche” delle cipolle ramate, le scorze del melograno, i ricci del castagno o i residui di potatura del ciliegio e dell’ulivo. E lo ha anche dimostrato organizzando, prima della pandemia, delle sfilate di abiti da sera e prêt-à-porter con un nome affascinante “Paesaggi da indossare-Le Donne in Campo coltivano la moda” che hanno riscosso molta attenzione da parte degli addetti ai lavori.

La maggior parte delle fibre tessili che oggi sono utilizzate nel mondo è di origine sintetica e richiedono un forte impiego di petrolio. L’industria tessile – sottolinea l’associazione Donne in Campo – è tra le più inquinante al mondo ed è responsabile del 20% dello spreco globale di acqua e del 10% delle emissioni di anidride carbonica. Considerato che il consumo mondiale d’indumenti è destinato a crescere di oltre il 60% entro il 2030, è evidente – sostiene l’associazione – quanto siano enormi le potenzialità di una filiera del tessile ecologicamente orientata, che in Italia potrebbe rappresentare il 15-20% del fatturato del settore: circa 4,2 miliardi di euro. È bene inoltre ricordare che l’Onu con Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile chiede di dar vita a nuovi sistemi di produzione a minore impatto ambientale e questo vale anche per il tessile. Occorre quindi sempre più offrire ai consumatori capi ottenuti con tecniche sostenibili. In Italia la domanda di questi prodotti è cresciuta del 78% negli ultimi due anni e oggi il 55% degli utenti è disposto a pagare di più per capi di abbigliamento che siano attenti al rispetto dell’ambiente.

Quali sono i numeri della filiera degli «agritessuti»? Secondo stime sempre della Cia-Agricoltori Italiani, la produzione di lino, canapa, gelso per l’allevamento dei bachi da seta, coinvolge nel nostro Paese circa duemila aziende agricole, per un fatturato, con le attività connesse, di quasi 30 milioni di euro. Se la filiera degli «agritessuti» venisse incoraggiata – osserva l’associazione Donne in Campo – questa cifra potrebbe triplicare già nel prossimo triennio coinvolgendo nell’immediato anche le tremila imprese produttrici di piante officinali, alcune anche tintorie. “È una filiera che stiamo costruendo, ma di cui abbiamo le conoscenze, considerata la vicinanza tra le donne e la tradizione tessile, nella storia e ancora oggi”, ci tiene a sottolineare Pina Terenzi, presidente nazionale di Donne in Campo-Cia. “Occorre però dar vita a dei tavoli di filiera a sostegno della produzione di fibre naturali alle quali andrà affiancata la creazione di impianti di trasformazione diffusi sul territorio e in particolare nelle aree interne, per mettere a disposizione dell’industria e dell’artigianato un prodotto di qualità, certificato, tracciato e sostenibile”. Ma da quali piante partire? Senz’altro dalla canapa, di gran lunga la più interessante, e poi il lino, il gelso per l’alimentazione dei bachi da seta.

Lo strano caso della canapa abbandonata in Italia a causa del proibizionismo Usa. “La canapa può fornire delle fibre tessili alternative al cotone, chiamato l’oro bianco, ma anche una nuova bioplastica sostitutiva di quella derivata dal petrolio. Già Henry Ford negli anni Trenta realizzò la prima auto costituita principalmente da plastica di canapa”, afferma Paola Ungaro, fashion designer, docente di tecnologia dei materiali tessili e autrice del libro Tecnologia. Innovazione. Sostenibilità. Conoscere i materiali tessili. “L’Italia è stata fino alla Seconda guerra mondiale il più grande produttore al mondo, dopo la Russia, di canapa e di ottima qualità. Una fibra poi boicottata dagli Stati Uniti (Marijuana Tax Act del 1937) negli anni Cinquanta del secolo scorso perché avevano tutto l’interesse a spingere sul cotone e sulle nuove fibre derivate dal petrolio (la Dupont aveva appena brevettato il nylon) e sulla carta prodotta dalla cellulosa del legno”, prosegue la Ungaro. “Dirò di più, proibirono lo sviluppo della coltivazione della canapa in Europa legandola alla marijuana. E da qui ebbe inizio inevitabilmente il declino della pianta in Italia; una modesta coltivazione rimase in Francia e Spagna che continuarono a produrla come pianta tessile e alimentare. Solo nel 2016”, ricorda la Ungaro, “il nostro Paese ha legiferato affinché sia nuovamente possibile la sua coltivazione. Oggi i più grandi produttori di questa fibra sono la Cina e il Canada grazie a impianti di trasformazione all’avanguardia”.

Luisa Bezzi che coltiva canapa su 30 ettari a rotazione a Ostra (Ancona), principalmente per uso alimentare, vorrebbe coltivare anche la qualità a fibra lunga adatta al tessile. Il suo desiderio non è ancora realizzabile per la mancanza sul mercato di macchine per la trasformazione della fibra. “È un peccato perché c’è una grandissima richiesta di tessuti in canapa di alta qualità interamente made in Italy”, afferma l’imprenditrice agricola. “Essendo una pianta che può raggiungere anche i cinque metri d’altezza”, prosegue la Bezzi, “abbiamo bisogno di macchine specifiche per la lavorazione della fibra che negli anni Cinquanta sono andate distrutte o vendute all’estero quando in Italia si è abbandonata questa coltura. Ma non ci arrendiamo nelle Marche, come in altre regioni del nostro Paese. Sono tanti gli agricoltori interessati a questa coltura biologica di natura, fitodepurativa e rigenerativa per il suolo”. Sensibile a questa richiesta di aiuto, “la regione Marche ha da poco approvato, tramite un Psr (Piano di sviluppo rurale), il finanziamento”, ricorda la Bezzi, “di un progetto triennale chiamato Progetto Rete Canapa che prevede lo studio e la costruzione di una macchina di ultima generazione, piccola e mobile, non particolarmente costosa, per poter trasformare la fibra sul posto secondo il suo utilizzo finale, non alimentare, per il tessile, le bioplastiche, la bioedilizia, contenendo così al massimo l’incidenza dei costi di trasporto e per chiudere la filiera. Il Linificio e Canapificio Nazionale, eccellenza a livello mondiale del settore tessile italiano, aspetta la canapa italiana”, conclude l’imprenditrice.

Il lino, il gelso e altre piante. “Anche il lino, altra pianta poco coltivata in Italia, è ottimo per produrre fibre tessili”, ricorda Paola Ungaro, fashion designer. “Il Linificio e Canapificio Nazionale, oggi acquisito dal gruppo Marzotto, sta reintroducendo la coltivazione nel bergamasco. Ma ci sono altre piante interessanti, come la soia, denominata anche cachemire vegetale, i semi di ricino, che possono essere impiegati per produrre nylon biobased. Anche la coltivazione del gelso indispensabile per allevare i bachi potrebbe essere una buona scommessa per reintrodurre la produzione di seta in Italia”, precisa la Ungaro. “Fino agli anni Quaranta eravamo dei forti produttori di seta, anche se in quantità minore di Cina e India, ma di qualità superiore. Oggi grazie al CREA-AA (Agricoltura e Ambiente) di Padova e alcune startup qualcosa si sta muovendo nel nostro Paese per un ritorno della filiera della seta”. Ci sono poi fibre tessili molto innovative di ultima generazione che si ottengono da una serie di sottoprodotti alimentari come gli scarti delle arance, dell’uva, delle mele. “Abbiamo però bisogno che lo Stato destini delle risorse a questo settore”, continua, “specie in questo momento che la sostenibilità e l’economia circolare sono molto di attualità. Inoltre, queste nuove fibre che provengono dall’agricoltura sono una carta vincente per noi addetti alla moda perché apprezzate dal marketing. È vero che non ci sono e non potranno mai esserci in Italia grandi quantità di canapa o lino, ma questo conta fino a un certo punto”, precisa la Ungaro. “Ci sono vini che sono prodotti in quantità limitata, ma questo non vuol dire che non abbiano un ottimo mercato. Quindi, per il momento gli «agritessuti» sono di nicchia, ma ci potrebbe essere presto un grande futuro, specie per la canapa”.