La parola selfie che dà il titolo al film di Agostino Ferrente presentato nella selezione di Panorama è una provocazione, come dice lo stesso regista. «Non è il selfie narcisistico del viso in primo piano: i protagonisti su mia richiesta si sono messi ‘di lato’ per raccontare la loro realtà». E cioè Pietro e Alessandro, due sedicenni di Rione Traiano, a Napoli, dove nel 2014 è stato ucciso il loro amico – e all’epoca coetaneo – Davide Bifolco: un carabiniere gli ha sparato alle spalle mentre andava in motorino con gli amici. «Lo Stato – dice Ferrente – ha giustiziato questo ragazzino incensurato e innocente perché era un «predestinato», un giovane delle periferie. Un omicidio che racconta una realtà che noi cerchiamo di rimuovere – salvo poi «rubarne» la parte estetica, per molti «pittoresca». Per raccontare questa realtà Ferrente si affida così ad Alessandro, che nella vita vuole fare (e già fa) il barista, e Pietro, aspirante parrucchiere, a cui vengono consegnati degli smartphone per filmarsi nel loro mondo, con la sua quotidianità: uscite con gli amici, liti e scherzi, l’estate, la dieta, il lavoro, l’ostinazione a non volersi conformare all’ambiente che li circonda.
E le idee chiare, anche se contrapposte, su come vogliono raccontare la loro storia: per entrambi siamo lontani dalle immagini della Napoli-Gomorra che invadono i media, ma mentre Alessandro pensa che bisogna mostrare solo «le cose belle» – «perché il mondo già conosce la camorra, cosa accade nell’ambiente in cui vivono», dice Ferrente – Pietro è convinto che vada mostrato anche ciò che a loro non piace: le pistole, lo spaccio. Ma poi è con ironia che si sdraia su un letto dorato che «sembra quello di un camorrista»: per lui mostrare «il male» significa anche «mettere in evidenza chi, come loro, ha intrapreso una strada diversa».

Come è nato il progetto del film e l’idea di affidare le riprese ai protagonisti?

Avevo giurato a me stesso di non fare più documentari: non riesco a non intervenire sulla realtà che racconto, ho il bisogno di entrarci e quasi di «ripararla». Cerco di tirare fuori il bello dei personaggi, di aiutarli a mostrarsi nella loro potenziale bellezza. Insomma creo una relazione profonda e divento parte di ciò che racconto. E questo alla fine è doloroso. Poi ho letto la storia di Davide Bifolco, e ho provato un grande senso di ingiustizia. Così quando mi è stato proposto di girare un altro documentario ho accettato a patto che me lo facessero fare come dicevo io: da tempo ero interessato all’autorappresentazione,che poi negli anni è esplosa.

Una scena da Selfie di Agostino Ferrente

Anche nel suo documentario “Intervista a mia madre” infatti ai giovani protagonisti veniva «affidata» la narrazione

In quel caso abbiamo dato le telecamere ai ragazzi ma stavamo con loro perché avevano bisogno di controllo tecnico, adesso invece i telefonini sono completamente automatizzati. Negli anni novanta inoltre gli abitanti di un luogo «disagiato» intravedevano nella telecamera un ponte verso il mondo, l’ultima possibilità di salvezza per denunciare la propria condizione – poi spettava a chi filmava farlo con un po’ di decoro invece che in modo «pornografico». Oggi invece questi ragazzi, che pure non hanno fatto scuole di cinema, hanno una consapevolezza tale da ispirarmi un po’ di ottimismo. Sono stati gli stessi Pietro e Alessandro a dirmi che non avrei potuto speculare sulla miseria che li circonda, di riprendere solo quello che decidevano loro – è così che ho pensato di affidare a loro il cellulare. Ma Selfie non è un film partecipato, Alessandro e Pietro non vogliono fare né i registi né i cameraman. Il cellulare non doveva essere uno strumento per raccontarsi sostituendo il regista, ma uno specchio in cui vedere riflessi se stessi e la propria vita: il mio sogno era fare un film sugli sguardi. C’è stato un accanimento mediatico nel raccontare Napoli che rende inutile mostrare ciò che i due ragazzi vedono – le periferie, i palazzoni – mi interessano piuttosto gli occhi di chi vede. E nello specchio non vedono solo se stessi, ma anche il mondo che li opprime.

Nel documentario è mostrato anche l’«autocasting» di altri adolescenti, fra i quali delle ragazze che già dichiarano di essere pronte a portare «rispetto» ai mariti se dovessero finire in carcere.

Una visione arcaica, agghiacciante, ma «realista»: fin da giovanissime sentono la responsabilità della vita che bussa alla loro porta, non hanno altre prospettive. In una città come Napoli il centro storico «rimuove» la periferia dove vive la maggior parte della popolazione, votata – anche se può sembrare un cliché – all’arte dell’arrangiarsi: le istituzioni sono presenti solo con le camionette delle forze dell’ordine, non c’è una biblioteca, un centro aggregativo, nulla che possa tener lontani i ragazzi dalle strade. Negli anni è anche nata un’associazione dedicata a Davide Bifolco, che si occupa di offrire un doposcuola a questi ragazzi. Eppure devono lottare per trovare uno spazio, che nessuno gli vuole dare. Chi non viene da quell’ambiente ha una visione un po’ manichea, per cui c’è un bivio fra il bene e il male, e le persone fanno una scelta. Ma già pensare all’esistenza di un bivio significa avere degli strumenti che loro non hanno: i padri di questi adolescenti fanno i carrozzieri, i parrucchieri, o magari gli spacciatori, che è considerato un lavoro come un altro – non c’è un confine.

Alessandro e Pietro però hanno una percezione di questo bivio.
Infatti per me sono degli eroi, e per questo li ho scelti come protagonisti. Hanno avuto la capacità, magari anche grazie alle loro famiglie, di provare a salvarsi. Ma è una lotta difficile: Alessandro per esempio, che ha frequentato una scuola per parrucchieri, non riusciva a inserirsi nel mondo del lavoro perché tutti hanno paura di impiegare un ragazzo di Rione Traiano.