Come prima cosa Agnès Varda ci tiene a ringraziare tutte le persone che hanno collaborato al suo nuovo film presentato fuori concorso alla Berlinale, Varda par Agnès, e in primo luogo la figlia Rosalie che ha prodotto il documentario, come anche il precedente Visages, Villages. «È divertente lavorare con la propria figlia, anche se qualche volta è dura con me: mi dice quando è ora di andare a letto, o di mangiare bene», scherza la regista che a novant’anni sembra essere afflitta solo dalla vista che si affievolisce sempre più. «Non voglio più parlare di me: dato che si avvicina il momento dei saluti preferisco parlare delle persone che ho incontrato, e che sono state importanti».

E AGGIUNGE di non voler parlare neanche del suo lavoro: «L’ho già fatto troppo a lungo nel mio film» – che ripercorre infatti la sua intera carriera da regista e artista visiva da prima ancora dell’esordio con La pointe courte, quando Varda faceva la fotografa. «Quando ho iniziato – ricorda – c’erano poche donne fotografe e registe, ma all’epoca in cui ho fatto il mio primo film non mi interessava essere una filmmaker donna. Volevo piuttosto essere una regista radicale, fare cose diverse, aprire nuove porte». La questione femminile nel cinema, continua, oggi è spesso posta in un modo che non la vede del tutto in sintonia: «Si parla sempre del fatto che devono esserci più registe, ma le donne devono entrare a far parte in modo più organico in tutte le ‘forme’ del cinema: dai comitati di selezione dei Festival alla tecnica del suono». E delle registe e attrici che hanno marciato insieme sul tappeto rosso allo scorso Festival di Cannes, per rivendicare un ruolo di primo piano per le donne, dice che: «Erano molto belle, con splendidi vestiti. Ma troppo chic per me: penso che la questione femminile non abbia a che fare solo con lo showbiz ma con gli uffici, le fabbriche. Le azioni troppo spettacolari mi rendono sempre sospettosa: è un lavoro che va fatto giorno per giorno, e oltre che sul tappeto rosso servirebbe marciare nelle strade».

PROPRIO le persone «semplici», sostiene Varda, sono quelle che nel corso della sua vita l’hanno interessata di più: «Meritano di essere guardate con la stessa attenzione che viene dedicata alle star. Ho fatto film sui raccoglitori al mercato, sugli squatter, sono stata sempre stata affascinata dalle persone per la strada. E per questo in Visages, Villages io e JR – il fotografo che l’ha accompagnata nel viaggio attraverso il sud della Francia, ndr – facevamo sempre dei primi piani di persone ‘qualsiasi’». Ma i suoi film, aggiunge, non sono mai stati ’politici’: «Sono sempre stata di sinistra ma non ho mai fatto parte di nessun partito. I miei film non fanno politica ma il loro spirito è sempre orientato alla cura delle persone. E rimango sempre al fianco dei lavoratori e delle donne».

QUESTO DESIDERIO di «vicinanza» ha fatto sì che la regista di Cleo dalle 5 alle 7 accogliesse senza pregiudizi l’avvento del digitale: «Quando ho scoperto le nuove piccole telecamere digitali sono stata felice del fatto che mi consentivano avvicinarmi alle persone in un modo che con la macchina da presa non sarebbe stato possibile. Ogni tanto ho nostalgia dei film in 35 mm, i miei li ho riciclati: con la pellicola ho costruito delle capanne grazie alle quali ogni tanto mi illudo ancora di vivere nell’epoca del cinema in 35 mm – sono capanne dei sogni a occhi aperti». Proprio l’immaginazione infatti: «Mi ha accompagnata per tutta la vita. Se non si smette mai di essere curiosi si ha sempre qualcosa da raccontare. Come diceva Gramsci, infatti, se si riflette sulla situazione in cui viviamo non si può fare a meno di essere ‘depressi’ – ma se si sceglie l’azione bisogna essere positivi».