Il vestito rosa acceso danza nell’aria inafferabile. Appare scompare si allunga fino al cielo davanti agli occhi stupefatti della pastorella che lo ha appena ricevuto in dono. Un pacco misterioso, portato dal postino, le caprette guardano anch’esse un po’ perplesse. Non siamo però in una Cenerentola, e non ci sono balli né fate madrine che avvolgono a colpi di bacchetta la nuvola dell’abito intorno al corpo della ragazza. Quel vestito spalanca altri mondi, cave, grotte, miniere, e quando sembra lì, a un soffio dalle dita diventa rigido e opaco come il gesso. Si chiama Les 3 Boutons il cortometraggio che Agnès Varda ha realizzato per la serie Women’s Tales prodotta da Miu Miu (alle Giornate degli Autori) – doppio programma con De Djess di Alice Rohrwacher. Un gioco, una fiaba, «un esperimento sulla moda che è vita con le sue contraddizioni» come dice la regista. Sorride mentre alle sue spalle scorrono i fotogrammi del film. Invece dell’abito dei sogni la ragazzina indosserà la divisa della scuola lasciando la campagna per la città. Appena smarrita ma sorridente, affamata con fantasie di gelati, i suoi passi rincorrono dei bottoni smarriti. C’è un artista che raccoglie le cose che si perdono e ne fa degli archivi: «Esiste davvero, ci conosciamo bene, si chiama Michel Jeunesse, vive a Lyon» racconta ancora Varda.

La moda per lei è la prima volta. Eppure è maestra di stile azzardato con quel suo caschetto bianco nel mezzo e rosso sulle punte che piccolina la riconosci dappertutto. Ha scelto il bordeaux la mattina del nostro incontro, tono su tono, anche la collana, e una borsetta un po’ stile Cina anni venti piena di colori. «La moda è una specie di utopia, per questo ho voluto un tono per il mio cortometraggio non realistico che al tempo stesso è totalmente reale».
Seguiamo allora ancora per un po’ i passi della ragazza e le casualità dei «suoi» bottoni. Tre e ognuno è un desiderio che forse si esaudisce. «Mi batterò, voglio studiare, voglio scegliere la mia vita». Dal villaggio dove giocano i bambini arriviamo a Parigi, tra i senza tetto accampati nelle tende, e poi in una via colorata: rue Daguerre dove Varda vive da sempre, la sua casa e il suo laboratorio di cinema, dove ci sono i ricordi di una vita, gli oggetti di Jacques Demy, a lungo suo compagno, le pellicole e le «cianfrusaglie».

Quella ragazzina determinata nonostante tutto le somiglia un po’. Ci voleva infatti molta determinazione per fare cinema quando ha cominciato, unica donna della nouvelle vague, un gruppo molto maschile come solo i critici e i cinefili sanno essere forse ancora oggi. L’esordio è datato 1954, La pointe courte, la cronaca della crisi di un matrimonio. Lo monta un giovane sconosciuto, Alain Resnais. Lei oggi dice: «Era un ottimo montatore. Mi disse che il mio film gli ricordava La terra trema di Visconti, io non ero molto cinefila allora». Agnès Varda aveva ventisei anni, rispetto ai «ragazzi terribili» della nouvella vague era già adulta, classe 1928, forse per questo la chiamano la madre della nouvelle vague, e persino la nonna. E poi non veniva dal cinema, il suo background era l’arte, ha frequentato la scuola d’arte del Louvre, e poi lavora come fotografa fino a quel film. Sarà per questo che le è sempre piaciuto sperimentare forme diverse, passando da una all’altra, e in ciascuna di esse, sia un film, una fotografia, un’installazione ritroviamo motivi comuni, frammenti di uno o dell’altro. Negli ultimi anni è l’arte visuale, prendiamo l’installazione alla Biennale arte di Venezia del 2003. Si chiamava Patautopia, e le patate apparivano già in Les glaneurs et la glaneuse, mentre di Les Plages d’Agnès ritroviamo la dolcezza melanconica e l’intimità di una fusione appassionata tra vita e cinema in una sua mostra alla Fondation Cartier, L’Ile et elle, dove la cabine della spiaggia erano fatte di pellicole.

«Adesso mi sento molto più coinvolta dall’arte, è un’esperienza che ti permette anche molta libertà nel modo di lavorare e soprattutto di arrivare a un pubblico diversificato e in molti luoghi del mondo. L’ultimo dei miei film che è uscito in sala è Les Plages d’Agnès, possiamo definirlo un documentario, ed è un approccio al cinema che ora sento più vicino. Ora a Parigi ogni mercoledì escono almeno venti nuovi film in sala e i giovani guardano quasi tutto in rete. Vanno poco in sala. L’arte, le istallazioni ti permettono anche di ‘riciclare’ i tuoi materiali, se pensi che le mie vedove sono arrivate in Cina, hanno organizzato una mia mostra a Pechino, e era bellissimo vedere tante persone cinesi stare lì e ascoltare le loro voci».

Le vedove di cui parla Varda sono quelle di Noirmoutier, l’isola in Vandea sulla costa atlantica occidentale della Francia descritta, suggerita, fermata in video, fotografie, segni, videoistallazioni. Un luogo che lei ama moltissimo, un amore «fra buonumore e malinconia». A fargliela scoprire è stato Jacques Démy, che era nato a Nantes. Nel 1962 avevano preso un vecchio mulino riadattato e sull’isola hanno sempre passato tutte le loro vacanze, con la figlia Rosalie, il figlio Matthew, i nipoti, i bambini ormai di tre generazioni. Le «vedove» sono protagoniste di un’installazione di 14 schermi, uno per ogni donna, ne ascoltiamo la storia e le conversazioni, senza auricolari le vediamo muoversi e parlare tra di loro.

«Mi piace mescolare le cose. Quello che cambia tra un’installazione e un documentario è la posizione dell’artista. Il dispositivo dell’installazione è completamente differente. Lo spettatore non è preso in trappola, può andarsene, gettare un occhio e ripartire. Non posso imporgli di guardare bene, è più libero, dunque più difficile a farsi catturare».
Torniamo indietro, agli anni Sessanta di Cleo dalle 5 alle 7, il film che l’ha lanciata. Era la storia di una donna, una cantante che attraversa Parigi insieme a uno incontrato per caso, mentre attende un responso medico che potrebbe diagnosticarle un male incurabile. Nel tenpo Varda ha continuato a muoversi tra forme diverse, ha raccontato la Cina, Cuba, l’America delle Black Panthers. E altri personaggi femminili indimenticabili, scoprendo attrici come la Sandrine Bonnaire di Senza tetto né legge, Leone d’oro a Venezia nell’85. «A un certo punto non ho più avuto voglia di trovarmi su un set, anche per questo I tre bottoni è stata un’esperienza molto divertente. Era una cosa piccola, ma l’idea di affrontare gli attori e tutto il resto …non è possibile. Per questo che ora faccio solo documentari, La gente è incredibile, e saperla filmare in una relazione è una prova molto avvicente per un cineasta. Sul set invece lavori con dei professionisti, gli attori, il che ti impone un approccio diverso. Al tempo stesso il confine tra cinema narrativo e documentario è labile, ricordo che per Senza tetto né legge tutti mi chiedevano se Sandrine Bonnaire fosse una persona ‘vera’, e come ero riuscita a renderla così reale».

Parliamo di donne. Lei pensa che oggi le cose siano cambiate nel cinema e in genere dai tempi dei suoi esordi? Perché tante professionisti, attrici, registe continuano invece a denunciare una discriminazione. Quest’anno al Festival di Cannes ha ricevuto la Palma d’onore, unica donna anche stavolta: «Le donne registe sono ancora troppo poche, ma credo che più di focalizzarsi sul conflitto uomo/donna si deve combattere per essere se stessi, per fare le cose che si desiderano. Le donne devono avere il diritto di scegliere la loro strada e non soltanto seguendo rivendicazioni economiche ma per ragioni più profonde. Nella vita mi hanno chiamata in tanti modi, e forse quello che ancora preferisco è «la nonna della Nouvelle Vague», perché il mio primo film uscì cinque anni prima dell’esplosione dell’ondata che cambiò i cinema. Mi piace considerarmi una ‘innovatrice’»