Secondo lei c’è stato un qualche elemento di «universalità» nel ’68, tale da avere coinvolto sia l’est che l’ovest?
Di certo ha segnato un punto di svolta. Non è un caso se molti rappresentanti del pensiero post-moderno, sparsi un po’ dappertutto, vengono da quella esperienza. Si diceva: vogliamo cambiare vita, qui ed ora. Non domani. Per quanto abbia avuto connotazioni politiche differenti a seconda dei diversi paesi – è stato dappertutto un movimento «contro le grandi narrazioni». Un movimento che ha difeso valori della modernità anche diversi tra loro, ma che aveva alla base la difesa vitale della libertà.
La questione della libertà è un altro modo per alludere alla questione dei bisogni, su cui lei ha scritto un testo che ha avuto una grande risonanza in occidente. Lei, allora, era a Budapest: in che contesto è nato questo libro?
Alla fine degli anni ’60, inizio ’70, eravamo alla scuola di Lukács. Ma né io né i miei amici eravamo impegnati nel movimento di rinnovamento del marxismo, che proponeva il ritorno alle radici, alle fonti marxiane. Quello che ci sembrò evidente, era il venire alla luce di molte varianti del marxismo, di molte interpretazioni possibili, in competizione tra loro: ed era precisamente questo ciò che più mi interessava. Nel mio libro La filosofia della vita quotidiana, i bisogni sono stati il punto di partenza per capire le trasformazioni sociali. Ho scritto La teoria dei bisogni proseguendo su questa stessa linea, prima dell’emergenza della nuova sinistra. In quelle pagine, respingevo il paradigma produttivista. Ma per me, questo libro non è stato importante: era, in realtà, una ricapitolazione delle teorie di Marx, che avrebbe dovuto costituire l’introduzione alla mia teoria dei bisogni, che però non ho mai scritto. Il mio libro non parte dalla stratificazione sociale, perché secondo me i bisogni umani non possono essere stratificati. In contrasto con la tradizione filosofica moderna, che ha origine in Kant, secondo la quale i bisogni sono quantificabili, io ho introdotto un nuovo concetto critico, ovvero l’insaziabilità dei bisogni, non solo materiali. Volevo denunciare il modo con cui il mondo moderno considera i guadagni e le perdite. Credo ancora nei bisogni radicali. Ma da quando ho scritto quel libro a oggi qualcosa è cambiato: non sono più marxista. Perché non credo più che il presente sia un breve passaggio di un secolo indirizzato verso una sorta di paradiso. Qui viviamo, qui moriremo.
Bisognerebbe, a suo giudizio, abbandonare tutte le teorie che propongono una filosofia finalistica della storia?
La nostra generazione, in tutto il mondo, aveva creduto nella possibilità di realizzare l’utopia dopo periodi di transizione e di conflitto. Avevamo la certezza di potere realizzare il paradiso in terra. Ma è giunto il momento di abbandonare ogni finalismo e di riscrivere una filosofia che parta da noi stessi. A partire dall’interrogazione di quei bisogni radicali, che essendo indotti da un capitalismo incapace di soddisfarli, restano tali. Quel che va indagato è il concetto di modernità, ben più vasto rispetto a quello di capitalismo. Io non credo che sia la storia a essere cambiata, ma la coscienza di essa: dopo il ’68 si è inaugurato un nuovo modo di guardare alla modernità. Le grandi narrazioni sono finite. Ed è difficile riuscire a guardare al di là del proprio orizzonte personale e del proprio presente. Nella modernità c’è un movimento pendolare tra universalismo e particolarismo che si esprime, per esempio, nella tensione costante tra cattolicesimo e protestantesimo; o ancora, in economia, tra libero mercato e interventismo. Altri movimenti pendolari verranno, ma la tensione non arriverà mai fino al punto di rottura. Ora, io mi domando: la fine delle grandi utopie è una perdita o un guadagno? Che cosa oggi è più importante e per chi? È questo che va analizzato: nonostante il collasso delle grandi speranze, tuttavia ad esse si deve un grande rispetto.