Invito a cena da Tiziana e Paolo, freschi di un viaggio in Oriente. Allora, erano gli anni Novanta del secolo passato, quell’invito risuonava come un incubo. Perché, allora, uno dei souvenir più gettonati insieme a sete sintetiche e naturali (ingannatrici le prime all’occhio inesperto dello straniero) collane, monili in argento o simil (sempre garantito puro), pezzi di autentico falso antiquariato, erano i sacchetti di spezie. I loro profumi si liberavano e si libravano, andando a stendersi per giorni e giorni sulle pareti di casa, sui mobili, sulla stoffa del divano, sui ripiani della cucina. Vittime incolpevoli di tanto e inopportuno entusiasmo erano gli amici, chiamati a raccolta e a turno per gustare i deliziosi manicaretti esotici delle Tiziana, ammanniti con la sorridente complicità dei Paolo. Se andava proprio malissimo, e alla luce di tali premesse potrebbe sembrare impossibile, accoglieva gli ospiti una sorta di nauseante cocktail olfattivo composto dal cuocere in pentole e padelle delle suddette spezie, dai bastoncini di incenso e dal tè che attendeva gli ospiti in tazze (ovviamente laggiù nei Tropici comprati), sostituendo un fresco bianco o un sano campari nel ruolo di aperitivo. Tutti ci si augurava che l’invito non arrivasse per il lunedì, giorno in cui le pizzerie sono generalmente chiuse. Che cosa le spezie avessero rappresentato al tempo delle spedizioni di conquista, delle esplorazioni, delle scoperte di altre terre definite sulle carte di Roma Caput Mundi ‘Hic sunt leones’, si sapeva poco o nulla. L’esotico era una vacanza che portava lontanissimo, e mentre già Indonesia, Sri Lanka e Thailandia cominciavano ad essere un po’consunte, si affacciava il mito delle isole della Piccola Sonda che non fossero Bali, delle enigmatiche Molucche, della Cina in lenta apertura al turista. Paesi con puntini urbani di impossibile pronuncia sulle mappe e briciole di terra in mezzo agli oceani evocavano sogni e avventure alla Robinson, non importa se il grande balzo si faceva su aerei da trecento posti. Una volta lì, c’era sempre un mercato dove aggirarsi, bianchi come latte appena munto, abbigliati comunque fuori luogo, sprovveduti più dei polli in vendita sulle bancarelle. Il miglior colpo d’occhio lo offrivano, per tornare all’argomento di cui sopra, le spezie: piramidi, coni, sacchi aperti come bocche colorate, grappoli, corone. Le si metteva nello zaino, dopo averne chiesto il nome e aver ricevuto una risposta indecifrabile. Poi, con l’estensione geografica delle migrazioni, le spezie sono arrivate da noi. E, ormai da tempo, per comprarle, basta entrare in un negozio che somiglia sempre molto a un bazar, padrone e commessi stranieri. Ma la scarsa cultura in tema di spezie rimane. Per comprendere cosa abbiano rappresentato nella storia di molti popoli del pianeta, nel destino dei conquistatori e dei conquistati, non basta certo un ricettario. Un piatto speziato racconta secoli di imprese mirate al profitto e nascoste sotto la maschera dell’eroismo patriottico, di spedizioni scientifiche perennemente meravigliate, di battaglie ad armi impari, di sangue e stragi, di pregiudizi e prepotenze, di colonialismo religioso, di povertà catalogata come tale in Occidente e sconosciuta al metro di confronto degli Orienti. Due citazioni in proposito avvalleranno quanto detto sin qui. Étienne de Taillemite, in Nei mari del Sud. Da Magellano a Cook, piccolo libro della collana Universale Electa/Gallimard, entrambi purtroppo fuori catalogo, scrive a proposito delle spedizioni del XVI secolo “In Europa il consumo di spezie provenienti dalle Molucche cresce di anno in anno: chiodi di garofano, zenzero, cannella e pepe sono molto ricercati per la cucina, per la fabbricazione dei profumi e per la farmacia”. Il sito cannamela.it evidenzia l’equivoco a proposito del curry “… come spesso erroneamente si crede, non è una spezia ma è un insieme di varie spezie ed erbe aromatiche essiccate e ridotte in polvere. Questa miscela è originaria dell’Asia tropicale ed è utilizzata principalmente nella cucina indiana. Comunemente viene preparata dall’unione di cumino, coriandolo, curcuma, che conferisce il tipico colore dorato, cardamomo, cannella, anice, zenzero, noce moscata, chiodi di garofano, pepe e peperoncino, da cui dipende la piccantezza. La polvere ottenuta è di colore giallo, ocra, o perfino rosso”.

Certo e ugualmente non basterà una mostra come quella che adesso racconteremo a colmare le lacune e fornire un quadro completo di cosa abbiano rappresentato le spezie lungo il cammino dell’umanità. Ma la sensazione conclusiva sarà di aver trascorso un paio d’ore dentro un mondo a modo tutto suo virtuale, camminando in un percorso di immagini prive di retorica, traendo sollecitazione e invito ad approfondire cercando titoli in tema negli scaffali di una libreria. Anche a questo serve Sulla rotta delle spezie. Terre Popoli e Conquiste, allestita negli spazi del MAO (Museo d’arte Orientale) di Torino fino al 27 settembre, maotorino.it, realizzata in collaborazione con National Geographic Italia e curata da Marco Cattaneo. Prima di entrare, una ricetta riemersa grazie a Melani Le Bris, autrice del divertente e ben documentato volume La cucina della filibusta. Il vero tesoro dei pirati caraibici (Elèuthera, € 20), che spiega la preparazione del Jerk. Si tratta di un piratesco stufato giamaicano di maiale, esaltato dalla presenza di cannella, noce moscata, pepe, chiodi di garofano e peperoncino antillano. Sono queste e altre spezie a comporre l’installazione della prima sala della mostra: una piattaforma su cui sono disposti barattoli di vetro che disegnano un cammino in tondo tra colori e profumi intensi, da ammirare e annusare a proprio piacimento. Ora che si è in possesso del visto per iniziare la rotta, non resta che seguirla. I porti di approdo, settantatre, corrispondono alle foto che National Geographic ha scelto nei lavori dei suoi grandi maestri. Alle immagini si aggiungono alcuni tappeti antichi appesi alle pareti, una serie di oggetti provenienti dalla collezione del MAO e rare mappe geografiche delle varie epoche interessate. Ogni sala è dedicata a una spezia, sulle pareti una riproduzione della pianta e frasi di letterati, storici, viaggiatori. Cosa significa rotta delle spezie, guardando allo specifico? Asia, dalle Molucche alla regione del Malabar in India, dall’Indonesia alla Cina, dall’Afghanistan alla Penisola Araba. Sguardo ulteriore e attento viene rivolto all’Africa. Furono queste le terre che videro attraccare a riva le navi da guerra e da commercio di Spagna, Portogallo, Olanda, della britannica Compagnia delle Indie. E ben prima di loro le naves onerariae dei Romani. Secoli e secoli di tempeste, di bonacce che annientavano nell’immobilità le speranze; di ammutinamenti, battaglie sanguinose con chi di quei luoghi era padrone da sempre, trattative e truffe commerciali inevitabilmente a favore dell’uomo bianco. Ma anche la narrazione di mondi che bastavano a loro stessi e, almeno in piccola parte, senza saperlo, avevano scoperto la formula seppure imperfetta della felicità; di culture e forme religiose tanto sconosciute quanto complesse; la repulsione o ammirazione verso donne e uomini descritti nei diari di viaggio con aggettivi come orribili, primitivi, beluini, aggressivi, alti, proporzionati, aggraziati. Tutto ciò è scomparso, oppure se ne sta sepolto sotto il peso ogni giorno più schiacciante della globalizzazione. Restano, a tracciare il ricordo di una vita quotidiana oggi oltre il confine dell’impensabile, proprio le spezie. A loro è legata la manualità della produzione, la vita di un mercato, la sopravvivenza di una comunità, la socialità. E, forse inconsciamente, il filo di una memoria antichissima. Questo, almeno, si ricava fermandosi davanti a ciascuna foto. Prima catturati dalla sua bellezza, poi fermati dai pensieri che evocano sia in chi ha goduto e gode del privilegio di poter andare lontano, sia in chi è costretto a delegare tale compito alla fantasia o a uno dei tanti, sovente superficiali, documentari del piccolo schermo. Tuttavia, non sia magra consolazione per i viaggiatori virtuali o quasi, anche andare lontano è divenuto assai più difficile. Pensate a quel che resta dell’Aghanistan, meta regina del turismo alternativo negli anni ’70 del Novecento; pensate a Katmandu squassata dal terremoto dell’aprile scorso; pensate a Bali, sconvolta nel profondo dalla presenza di migliaia di turisti; pensate a San’a, Yemen, patrimonio dell’Umanità ridotto in polvere dalle bombe. E, su altre latitudini del globo, pensate al Kerala, al Ciad, al deserto del Sahara immenso e diffuso cimitero di relitti e morti di guerra, all’Africa, al Libano. Pensate. Questo sembra essere l’invito di una galleria di immagini dove le armi tacciono ma solo in quanto lontane, in parte e per ora, dai luoghi dove sono state scattate. Ecco le spezie di Bruce Dale, a Tidore, Molucche, una pianta di chiodi di garofano in braccio a un bambino e un altro bambino chinato a bere l’acqua di una fonte; due donne del Rajastan con abiti gialli e verdi in mezzo a una distesa rosso vivo di peperoncini, a firma di Shivji Joshi; il cammello ‘fermato’ da James L. Stanfield mentre aziona una macina per il sesamo a San’a; lo scortecciamento dei rami di cannella a Gonapinuwala, Sri Lanka, sempre negli scatti di Stanfield; il commerciante davanti ai suoi sacchi, nel suq di Khan el – Khalili, Il Cairo, ritratto da Richard T. Nowiz; aglio, okra e peperoncino al mercato sahariano di Faya – Largeaud, Ciad, visti da George Steinmetz: le due mani davanti all’obbiettivo di Dean Conger, immerse nei gusci rossi e neri della noce moscata, a Grenada, Indie Occidentali britanniche. Lo sguardo dei visitatori davanti ai pannelli fotografici, più che fermarsi sembra volerli oltrepassare; trasformare in finestre da cui calarsi in mondi ignoti, affascinanti aldilà dell’ordinaria durezza che sia pure un solo scorcio riesce a comunicare. La rotta della spezie non è mai stata facile, Non parliamo di chi l’ha percorsa con lo scopo di arricchire il paese da cui proveniva e, anzitutto, se stesso. Ma di chi, quella rotta, nel microscopico segmento in cui vive, la conosce da quando è nato, e prima di lui i suoi familiari, e ancora prima i suoi antenati. Se ciascuna foto potesse diventare realtà animata, il visitatore si troverebbe sbalzato dentro dimensioni attraversate da odori a volte repellenti, polvere, caldo, mosche che non danno tregua, fango melmoso quando da poco ha piovuto, folla che non va per il sottile pur di farsi strada. È questo il mercato vero, che vende le sue spezie non per la gioia del turista, ma in quanto merce come un’altra. Il mercato vero, del turista se ne infischia, l’eventuale contrattazione si compie con gli stessi rituali e gli stessi prezzi di partenza, la carta dentro cui vengono avvolte le spezie è per tutti la pagina di un vecchio giornale da mettere in borsa. Ma le foto rimangono mute, affidando al visitatore il compito di comprendere il loro significato, sperando di servire a suscitare il desiderio di saperne di più. Di sapere, ad esempio, cosa si nasconda dietro i fiori della rosa di Syzygium aromaticum, Zanzibar, Tanzania, e così scoprire che di un’altra rotta, ben più ignobile, si resero colpevoli i colonizzatori europei, la rotta degli schiavi. Oppure di portarlo a cercare su internet non la ricetta del pollo al curry, e invece quanto sia ricordata ancora in Occidente la tragedia dell’ultimo terremoto nepalese. Se ciò dovesse avvenire, ma non saranno i flussi dei visitatori a dare risposta, significherà che la mostra torinese avrà assolto al suo compito. Fare di un spunto, di un’idea, il motore che mette in viaggio l’attenzione e il desiderio di conoscenza. Infine una confessione: anche chi scrive è stato, in altri tempi della propria vita, Tiziana e Paolo. Gli amici lo ricordano bene. Ma chi scrive ha la certezza che fosse un venerdì sera, giorno in cui le pizzerie sono aperte.

Intervista al direttore del MAO

Marco Biscione, direttore del MAO fresco di nomina, ha portato con sé vent’anni di esperienza al Museo Preistorico ed Etnografico di Roma; un quadriennio alla Direzione Generale Cultura dell’Unione Europea e poi al Consiglio Generale di Strasburgo; quattro anni ai musei di Udine, dove ha lavorato a risolvere problemi di affluenza di pubblico, di identità e di riaperture. Dal curriculum di Biscione emerge una duplice esperienza, dentro realtà diverse per dimensioni e rapporto con le istituzioni. Il MAO ha forti somiglianze tipologiche con i musei di Udine. Sarà per questo che il nuovo direttore si è messo nuovamente in gioco? «La premessa che io non sia un orientalista evidenzia come la figura del direttore di un museo non sia più quella esclusiva dello specialista. A un direttore, oggi, vengono chieste altre competenze, non ultime di tipo gestionale. Questo perché è cambiata la natura dei musei. Fino a vent’anni fa erano raccolte di begli oggetti, esposizioni permanenti, pagate dalla spesa pubblica come le scuole. Adesso un museo deve fare politica culturale, fornire un servizio; deve sì continuare a esercitare il suo ruolo conservativo, lavorando però alla valorizzazione del proprio patrimonio dentro la comunità. Il numero di visitatori non è un obbiettivo, ma un parametro. Significa che il museo è apprezzato e diffonde conoscenza. Il MAO, avvicina al pubblico popoli e culture lontani e, sia detto senza retorica, fa da ponte tra Paesi diversi. Ad esempio, quando arrivano a Torino delegazioni straniere dall’Asia, vengono portate qui, dove sono stati anche firmati accordi». Le cifre sembrano stare dalla parte di Biscione: i primi cinque primi mesi del 2015 hanno registrato quasi 60mila visitatori, più di quelli dell’intero anno precedente “Non voglio attribuirmi meriti che spettano a chi è venuto prima di me. Ma fare interagire le collezioni con le mostre temporanee è la strada da seguire e ampliare. Organizzandola sistematicamente all’interno di un programma ben definito”