Secondo Matteo Renzi i migranti bisognerebbe aiutarli in casa loro. Aiutare la gente a vivere nella sua terra, senza essere costretta a sradicarsi, è una prospettiva corretta. Se fosse stata adottata nel passato (molto tempo fa) ci avrebbe risparmiato dolore, disperazione, catastrofi. Proposta come soluzione nell’immediato, appare insensata. Ai piani d’aiuto servirebbero decenni per dare i loro frutti e siamo alle prese con un’emergenza migratoria grave. Tuttavia, il progetto irrealistico (a breve, medio termine) di un aiuto ai migranti in casa loro, legittima l’intento di chiudere subito l’ingresso di casa nostra.

Con un approccio comunicativo di identificazione con le paure di molti italiani, Renzi si è fatto portavoce dell’esigenza di dissociare l’imperativo etico di soccorrere i senzatetto dal vincolo reale della loro accoglienza. Ha, in effetti, del tutto coerentemente, negato “l’obbligo morale di accoglierli tutti”. Il consenso che otterrà la sua posizione non dipende dall’efficacia della chiusura dei confini che adombra. Si sa bene che le onde delle migrazioni massicce trovano sempre il passaggio che fa al loro caso. Chi potrebbe, peraltro, fermare coloro che hanno sfidato la morte nel loro viaggio?

La forza persuasiva di un discorso sulla migrazione che auspica una terapia preventiva contro un bubbone già esploso, mirando, in realtà, a una mutilazione chirurgica del corpo malato, è nella possibilità che offre, a chi lo fa suo, di allontanarsi da una posizione etica nei confronti dell’altro. Il legame etico con l’altro sta nel riconoscimento che è egli co-costitutivo della nostra soggettività (per quanto lontano da noi sia). Qualsiasi cosa gli accada ci appartiene come nostra potenzialità, ci riflettiamo, se sufficientemente vivi, nella sua caduta. Dissociarsi dall’obbligo di accogliere gli esiliati, serve a sviare lo sguardo dalla nostra precarietà, a pagare il prezzo della deprivazione per acquistare miseria umana.

Il rapidi cambiamenti del nostro paesaggio -ambientale, culturale, sociale- creano inevitabili difficoltà identitarie a cui è necessario far fronte. L’impasse è seria tutte le volte che i movimenti migratori che cambiano il paesaggio si staccano dallo scambio, i rapporti di uso reciproco con l’altro. Il diritto del più forte che abbiamo imposto al resto del mondo, scegliendo l’ottica del bisogno piuttosto che del desiderio (la parità dei contraenti), ha sterilizzato i rapporti di scambio -dopo averli resi via via più ineguali-, creando smottamenti imponenti del terreno della convivenza umana. Oggi la migrazione va dalla fame verso la sazietà (compagna inseparabile dello spreco) e dalla terra di nessuno a una nuova terra promessa (frutto della necessità e dell’illusione).

Il cambiamento rapido del paesaggio familiare a causa dell’immissione massiccia di un altro che, perduto lo statuto di oggetto desiderato, ci è diventato estraneo, nasconde, rendendo complicato il farsene carico, la distruzione della nostra dimora operata da noi stessi con tutti i mezzi di cui disponiamo. L’abusare senza sosta dell’altro ha prosciugato i nostri sentimenti e desideri e ha danneggiato gravemente il nostro ecosistema psichico e civile. Pensiamo di cavarsela nascondendo la testa nella sabbia in cui siamo rimasti impigliati. Sospesi in un presente immobile, stantio copriamo l’odore della muffa con il cattivo odore che viene da ciò che ci circonda, da noi trasformato in un’enorme pattumiera.

La terra non è degli struzzi, ma degli uomini capaci di costruire una casa vivibile, perché aperta alla realtà, sul suolo lasciato in eredità dagli antenati.