Antifascista convinto e coerente, sempre, Guttuso è per molti il simbolo dell’arte politicamente impegnata, dalla parte dei disagiati, dei lavoratori e degli umili. Questo tipo di arte, però, sotto l’etichetta di «realismo» (socialista o no) ha accomunato tanto l’estetica comunista egemone dopo la seconda guerra mondiale, quanto una parte della propaganda fascista, soprattutto negli anni trenta. Continuità e contraddizioni di un’esperienza gomito a gomito con le grandi ideologie novecentesche sono portate ora alla luce da una mostra alla Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra (in collaborazione con la Galleria d’Arte Maggiore di Bologna: Renato Guttuso Painter of Modern Life, fino al 4 aprile; catalogo Silvana Editoriale, pp. 77, £ 10.00), forse troppo piccola per rendere conto di tanta complessità storico-culturale, ma certo utile, a vent’anni dalla grande retrospettiva della Whitechapel Gallery, per ripensare il grande pittore di Bagheria nel suo dialogo con la modernità, e pure oltre.
Nato nel 1911 e cresciuto durante il Ventennio, Guttuso fu premiato due volte da Bottai, nel 1940 e nel 1942, al Premio Bergamo, forse perché estraneo alle due tendenze, entrambe ideologicissime, dell’arte primo-novecentesca, l’astrattismo e il naturalismo, risultando potenzialmente in sintonia con l’estetica fascista, che puntava a una combinazione di tradizione e modernità. Neppure l’incontro col gruppo della rivista «Corrente», a Milano, a partire dal 1938, insieme a Renato Birolli, Bruno Cassinari, Giuseppe Migneco, Ennio Morlotti ed Emilio Vedova, fu, sul piano figurativo, un’esperienza così dirompente da poter essere letta come antifascista: oggi è facile, col giudizio dei posteri, attribuire a Guttuso – come fanno le didascalie della mostra – una critica al regime fatta di velate allegorie della brutalità fascista, ma ancora negli anni cinquanta quadri come Il lavoratore (1956) e La zattera della Medusa (1955, che è comunque après Delacroix) non sono troppo distanti, per l’esaltazione delle masse muscolari e la continuità del piano figurativo, dall’arte del Ventennio. Certo, Guttuso si era iscritto al Pci nel 1940 e aveva raggiunto la Resistenza nel 1944; ma sovrapporre le ragioni biografiche all’interpretazione artistica è semplificazione tanto tentatrice quanto fuorviante.
Andrà forse ammesso che Guttuso è stato molto spesso talmente mainstream da piacere per forza all’establishment, con quella carica di intellettualismo e populismo in combinazione che serviva a propagare i miti dell’intellettuale guida del popolo e del popolo buono alla condizione che restasse bue. Era il 1965 quando Alberto Asor Rosa dimostrava, in un libro molto celebrato ma forse tanto allora quanto ancora oggi poco ascoltato, che i miti populisti della cultura di sinistra rischiavano di sfociare in una dimensione pericolosamente regressiva: idealizzare significava destituire di realtà e soggettività, facendo dell’attore o dell’artista colui che dava senso al popolo, senza che il popolo prendesse in alcun modo parte a questo senso.
Del corto circuito tra narcisismo dell’artista, sua missione civile e sua superiorità intellettuale, Guttuso è stato certamente prigioniero – quasi quanto Moravia, suo corrispettivo letterario sul piano della rappresentazione pubblica, da lui ritratto nel 1940 e 1982. Aderenti alla superficie del mito, perciò carichi di forza simbolica e destituiti di profondità critica: icone eroiche, stanche rappresentazioni del primato dell’ideologia tanto sulla realtà quanto sulla forma. Sarebbe ingeneroso, però, e certo frettoloso, non riconoscere a Guttuso uno slancio vitale, un’inquietudine sperimentale e una ricerca simbolica che lo portano lontano da un passivo continuismo e da mitologie acritiche: basta prendere La morte dell’eroe del 1953, dove le pieghe del lenzuolo che mummifica e che avvolgono un volto anonimo e umanissimo fanno sbancare ogni retorica dell’eroismo della generazione prebellica. Né si potrà leggere solo con le categorie dell’elogio reverenziale e dell’operazione accademica lo stupendo Omaggio agli impressionisti del 1966, dove Guttuso combina elementi figurativi di Van Gogh, Seurat, Cézanne e Picasso (nessuno dei quali è, a rigore, un impressionista, ma poco importa) per raggiungere una sintesi totale di un’esperienza che a decenni di distanza appariva ormai imprigionata nella categoria dell’-ismo, con la conseguente destituzione d’individualità degli artisti e delle loro opere: i giornali stropicciati sotto l’orecchio di Van Gogh segnano piuttosto la distonia tra l’urgenza del presente e la sua difficoltà a leggere il passato. È probabilmente il Guttuso sperimentatore, in costante dialogo con la tradizione, ma capace di coglierne anche la dialettica perenne di permanenza e morte, quello che sta più a cuore agli inglesi (argomento su cui la mostra giustamente insiste, valorizzando il dialogo tra culture anziché il solito approccio puramente celebrativo), come quello che occhieggia a Dalì nella Mandibola di pescecane su paesaggio e a Bacon nell’Agnello macellato (entrambi del 1974).
Eric Estorick conobbe infatti personalmente Guttuso, di cui acquisì per la sua collezione La morte di un eroe, ma il suo tentativo di svincolarlo dall’appartenenza ideologica (leggendo il drappo rosso accanto al letto come simbolo della fede ideale dell’eroe anziché riferimento alla bandiera comunista) rischia di far precipitare di nuovo il quadro in facili iconismi di maniera (l’esaltazione della fede o l’appartenenza alla bandiera) piuttosto che valorizzare quegli elementi di vero realismo, non propagandistico e certo antiretorico, che costituiscono l’aspetto più interessante, e sempre valido, della pittura di Guttuso.
Comunista-individualista, secondo un modulo diffuso negli anni sessanta e settanta, Guttuso fa esplodere tutte le sue contraddizioni nel bagno di folla del Comizio di quartiere (1975), dove un autoritratto al centro del quadro, a fare da pendant con chi di spalle arringa i convenuti, sembra epitome del narcisismo artistico e del centralismo ideologico. Eppure un osservatore attento non potrà ignorare i dettagli, che cambiano completamente la lettura iconologica e simbolica del quadro: almeno due volti di donna senza l’occhio sinistro, facce reali inserite a collage (tra cui Marylin e Picasso), volti disegnati con inchiostro, due altri volti fusi in uno in prima fila, due bellissime mani che applaudono in basso a destra. L’individualità è restituita al di là della prima impressione, con un effetto di caos che neppure la pienezza della luce frontale e la vivacità dei colori acrilici può negare. Se non esiste contenuto senza la sua realizzazione formale, non esiste neanche lo stile senza la materia: qui, nell’impossibilità di ricondurre lo stile (individuale) a forma (ideologica), perché la materia inesorabilmente sfugge, Guttuso sfugge a sua volta a ogni stereotipo e rivela il grande pittore al di fuori della funzione pubblica. È la Figura in verde davanti al fuoco (1985-86), una delle sue ultime opere, a manifestarlo finalmente libero da categorie troppo vincolanti e capace di esplorare l’intimità, con le connesse inquietudini, di contro alle troppe certezze del pittore rassicurante della borghesia intellettuale che col Pci s’identificava. La camicia verde della donna di spalle, che scopre mutande nere e calze grigie davanti al fuoco sullo sfondo, tra le gambe su tacchi a spillo, sovrastato da una libreria disordinata, si staglia sulla perfetta geometria della costruzione architettonica, unendo staticità e rottura, intimo e perturbante, ripiegamento e offerta: mai veramente a casa e mai veramente sexy, come l’arte del suo autore.
La parte migliore della mostra è certamente quella che fa da complemento, al secondo piano, dedicata all’amicizia tra Guttuso e Peter De Francia, che propone i disegni a carboncino, negli anni cinquanta, tra realistico e metafisico, del secondo, chiaramente influenzato dal primo, cui attribuiva, in una lettera a Timothy Hyman, il grande merito di aver fatto fuori il culto dell’autoespressione e dell’individualismo, e di averlo fatto praticamente da solo per circa trent’anni. La sua esperienza rivela la presenza e trasformazione della lezione di Guttuso oltre l’Italia – de Francia era nato in Francia, ma divenne un artista britannico, professore di pittura al Royal College of Art dal 1972 al 1986, forse, come dice la didascalia, ‘il più europeo degli artisti britannici’. Facendo dialogare a specchio, da un piano all’altro, due grandi del realismo novecentesco, la mostra va al di là dell’ossequio e propone finalmente la necessità di esplorare i contesti oltre i percorsi.