Che nel nostro Paese il mondo dell’arte sia poco inclusivo e attraente per gli individui di discendenza extraeuropea, è un fenomeno evidente; più complesso è cogliere i meccanismi che generano questa estromissione. In mancanza di barriere palesi, bisogna interrogare quelle implicite (ma altrettanto violente): l’immaginario, i linguaggi, la sensazione di sentirsi o meno accolti.

È a partire dalla riflessione su questi temi che Centrale Fies, il centro culturale dedicato alle arti performative situato a Dro (Trento), ha deciso di istituire un bando a sé stante nell’ambito del progetto Live Works. Ogni anno vengono scelti artisti e artiste da ogni parte del mondo per abitare per un periodo la centrale, viene loro elargito un contributo economico per produrre uno spettacolo, si confrontano attivamente con i curatori e presentano il loro lavoro in estate, a Dro. Anche quest’anno è stata lanciata la chiamata, che scade il 30 marzo; oltre a quella tradizionale, ce n’è però un’altra intitolata ad Agitu Ideo Gudeta, l’imprenditrice etiope residente in Trentino vittima di femminicidio alla fine dello scorso anno.

La Agitu fellowship è specificamente indirizzata a persone nate o cresciute in Italia che si identifichino nelle categorie di «soggetti razializzati, soggetti appartenenti a minoranze etniche, soggetti con background migratorio». Affinché la sperimentazione non riguardi solo le pratiche artistiche ma anche l’accesso a quest’ultime, i curatori di Live Works — Barbara Boninsegna e Simone Frangi — hanno accolto nel team Mackda Ghebremariam Tesfau’, attivista dell’associazione Il Razzismo è una Brutta Storia e Justin Randolph Thompson, direttore dell’appuntamento annuale Black History Month Florence. «Centrale Fies aveva bisogno di una curatela esplosa per andare avanti, è molto importante perché non sempre si hanno le parole giuste, anche quando si è convinti del contrario» ci racconta Boninsegna, co-fondatrice del centro.

Cosa vi ha spinti a lanciare questa nuova chiamata?
M. Ghebremariam Tesfau’: Nella mia vita ho sempre sentito una certa distanza con il mondo dell’arte dovuta al fatto che il canone non è inclusivo; a Centrale Fies però la bellezza e la libertà coesistono. Così è nata l’idea di rendere questo spazio ancora più fruibile da soggetti che sono strutturalmente esclusi, innanzitutto per una questione di mancanza di rappresentazione, che non apre l’orizzonte simbolico e non permette di sentire di poter accedere a uno spazio. È facile per una persona come me non sentirsi rappresentata adeguatamente nelle opere d’arte conservate nei musei più importanti e la risposta immediata è tenersene lontani. Nella mia collaborazione con Il Razzismo è una Brutta Storia ho capito che bisogna lavorare sull’immaginario e inventare nuove narrazioni che parlino delle altre italianità.

Nel bando c’è l’invito a presentarsi ad artiste e artisti autodidatti, da poco inseriti nei circuiti. Perché questa scelta?
S. Frangi: Live Works ci è subito sembrato l’ambito giusto in cui operare questa apertura ulteriore, perché in effetti è sin dall’inizio, nove anni fa, che abbiamo lavorato all’allargamento del canone artistico dall’interno. Abbiamo sempre avuto molti artisti che venivano da Paesi altri ed è capitato più volte che sollevassero la questione della razionalizzazione nei loro lavori. Pensiamo che le pratiche artistiche emergenti non necessariamente fuoriescano dai percorsi formativi ufficiali. C’è un problema di auto-legittimazione: nelle istituzioni ci si entra se ci si sente legittimati a farlo. Affermare con forza che la formazione accademica non è un requisito è un modo per tentare di raggiungere altri luoghi come le strade, le comunità, i network dove la pratica performativa circola già ma in maniera meno strutturata. È un invito a sentirsi adatti e adatte a rispondere.

M. G. T.: Questa apertura è anche un modo per includere una dimensione di classe. Sappiamo che la razza viene costruita anche attraverso la classe, al punto che talvolta è arbitrario separare i due processi. È difficile che una persona razializzata abbia accesso a un determinato tipo di formazione, considerata velleitaria. Bisogna produrre dei sistemi per riparare una situazione che è rotta e si riproduce come tale. Nell’arte le istituzioni sono centrali e in esse c’è quasi sempre un sotto testo implicito che riguarda il modo in cui lo Stato-nazione è stato costruito e per chi.

J.R. Thompson: È una sfida non facile perché molti dei valori che creano esclusione fanno parte della storia e di quella dell’arte in modo particolare. In Italia c’è una forte insistenza su una storia scritta in maniera precisa, che non fa riflettere su una serie di questioni che riguardano questo territorio da sempre. C’è una sorta di fissazione per l’arte del passato, mentre al giorno d’oggi non c’è rispetto per la professionalità dell’artista e non si parla della violenza sociale così presente nei periodi «d’oro» come il Rinascimento. Purtroppo gli artisti e le artiste afro-discendenti lasciano spesso il Paese perché non ci sono abbastanza opportunità. In più c’è innegabilmente un razzismo diffuso che li spinge ad andare altrove. Questa borsa di studio è un gesto per creare una situazione in cui c’è cura e attenzione, sia per il contesto che per il supporto economico.

La nuova borsa di studio è intitolata ad Agitu Ideo Gudeta.
B. Boninsegna: Agitu lavorava come noi, pensando alla montagna e al nostro territorio. L’avevo incontrata poco tempo prima della tragedia e mi aveva raccontato dei suoi progetti imprenditoriali in corso. Ci siamo posti molte domande sull’opportunità o meno di intitolare questa borsa di studio a lei, il mio terrore era di appropriarmi di qualcosa di cui, nei giorni successivi alla sua morte, si stavano appropriando tutti. Abbiamo parlato con diverse associazioni e dopo essere entrati in contatto con la famiglia e aver avuto il loro permesso, abbiamo preso la decisione. Pochi giorni fa in Trentino c’è stato un altro terribile femminicidio e già non ci si ricorda più di Agitu. Dopo i bombardamenti mediatici dei primi giorni cala il silenzio, questo mi fa molto male.

Live Works è un percorso con nove anni di storia alle spalle, cosa vi aspettate per la prossima edizione?
S. F.: È nato come un progetto intensivo, in cui un gruppo nutrito di artisti e artiste vivevano insieme a Centrale Fies per due settimane per studiare e produrre spettacoli. La pandemia ci ha costretto a cambiare formato, viste le difficoltà a riunirsi tutti insieme abbiamo deciso di allungare il periodo facendolo diventare annuale, così da poter garantire un supporto più concreto. Vogliamo mantenere comunque un dialogo tra chi crea, per cui cerchiamo sempre di ospitare due progetti contemporaneamente. A giugno, dal 9 al 14, stiamo organizzando un summit in cui possano incontrarsi i vincitori del nuovo bando con quelli della sessione in scadenza, che presenteranno i loro lavori dal vivo; in quei giorni ci sarà anche una free school di carattere teorico. Sapendo poi che la mobilità non è sempre scontata, vorremmo garantire un periodo di residenza agli artisti anche nei loro Paesi di provenienza, grazie ai nostri contatti con centri culturali affini. La pandemia infatti non ha fatto che acuire le difficoltà con i visti internazionali, abbiamo sempre avuto molti problemi con quelli africani, l’internazionalizzazione non è un effetto romantico ma un lavoro serio.