Difficile resistere alla tentazioni di parlare di cinema con Agnieszka Holland (Varsavia, 1948) anche in un momento delicato per il suo paese. La società polacca sta vivendo una fase difficile caratterizzato da una fase di orbanizzazione forzata delle istituzioni voluta dal partito di destra Diritto e giustizia (PiS), salito al potere lo scorso autunno. Il messaggio della cineasta polacca testimone poco silenziosa della Primavera di Praga e della genesi di Solidarnosc è chiarissimo: bisogna sapersi indignare senza rinunciare a raccontare la realtà anche attraverso la finzione, in barba all’etica e all’estetica della”dottrina Lanzmann”. Durante la sua carriera Holland ha dimostrato di essere una personalità infaticabile che si è dimostrata capace di flirtare con Hollywood proprio come Roman Polanski. Eppure, i suoi numerosi viaggi oltreoceano non hanno diluito di una goccia la sua rabbia. La nostra conversazione è servita a fugare ogni dubbio sull’improvvisa conversione della Holland alla televisione nell’ultimo decennio, ipotesi alimentata da una filmografia poliedrica e “genericamente” trasversale.

Due anni fa si è cimentata con l’adattamento di Rosemary’s Baby in una mini serie televisiva prodotta dalla NBC. Quanto ha pesato il precedente di Roman Polanski nelle sue scelte realizzative?

La pellicola di Polanski è uscita quasi cinquant’anni fa. Era un’altra epoca. Non a caso la mia Rosemary interpretata da Zoe Saldana è certamente meno vittima e più femminista di quella interpretata da Mia Farrow. E poi il film di Roman era molto più profondo e spirituale nella confusione tra realtà e sogno da parte della protagonista. Nella mia interpretazione del romanzo di Ira Levin il diabolico si manifesta in modo molto più concreto, quasi laico soprattuto nel finale della storia.

Lei ha ribadito a più riprese di non essere d’accordo con Claude Lanzmann noto oppositore di ogni film di finzione dell’olocausto secondo il quale tale tema andrebbe affrontato con un approccio documentario. Ci puo spiegare meglio perché?

E una questione assai delicata. Ragionando così, per quelli che non scelgono il documentario non resterebbe che il silenzio. Ma così si rischia l’oblio. E dei documentari che ci mostrano le bocche dei forni crematori cosa dovremo dire? Bisogna scendere a patti con la realtà mantenendo la consapevolezza di non poter mostrare tutto sulla schermo. E poi c’è anche la questione didattica, la forza emotiva del cinema può avvicinare il pubblico alla realtà storica attraverso la finzione.

25 anni fa lo stesso Lanzmann aveva stroncato Dottor Korczak (1990) di Andrzej Wajda a Cannes per il suo finale onirico-metaforico in cui i bambini condannati allo sterminio riescono a scappare dal convoglio nazista per poi ritrovarsi a correre insieme a Korczak in un prato sventolando una bandiera con la stella di Davide. Non crede che la finzione debba avere dei limiti morali?

Io mi ricordo soprattutto degli attacchi da parte della stampa francese. Dubito che Wajda abbia evitato di fare in conti con la realtà soltanto per rendere la pillola meno amara. Infatti una voce fuori campo nel finale precisa quale sia stato il vero destino di Korczak e dei “suoi” bambini. Piuttosto che di metafora parlerei di mito come quella dell’eroismo disperato dell’armata polacca a Westerplatte. E poi il romanticismo di Andrzej pesca continuamente nel mito e nella leggenda. L’epilogo sembra essere giustificato dalla natura di molti scritti simbolisti dello stesso Korczak che, oltre che a essere un salvatore di ebrei, era un personaggio profondamente spirituale.

In Burning Bush – Il fuoco di Praga (2013), Lei ha scelto di raccontare i carri armati sovietici nelle strade e il rogo di Jan Palach in un’altra mini-serie prodotta da HBO. Che ricordi ha della Primavera di Praga?

Allora ero una studentessa di regia al FAMU di Praga. Avevo scelto Praga perché ero rimasta affascinata dai film della nová vlna. In quegli anni avevo l’abitudine di rientrare in Polonia per le vacanze estive. Quando i sovietici hanno invaso il paese mi sono barricata in casa. Dovevo anche nascondermi dai cecoslovacchi visto che anche Varsavia aveva contribuito in modo vergognoso con l’invio di truppe alla repressione sovietica. Strano a dirsi ma nemmeno i cineasti cechi o slovacchi si sono cimentati spesso con un episodio storico di tale portata sul grande schermo. Da qui l’esigenza di girare questa mini-serie in tre episodi.

Quanto è cambiato il suo approccio dietro la m.d.p. dopo aver lavorato come regista di serial?

L’errore piu grande che si possa commettere sul mio conto è il fatto che si dica che io abbia messo da parte il cinema per i serial. Negli ultimi tempi ho lavorato ad alcuni episodi prodotti da HBO e NBC, ma sono decenni che realizzo film televisivi e registrazione di spettacoli teatrali. Eppure l’unico serial sul quale ho avuto un controllo quasi totale è stata la fiction politica Ekipa (2007) prodotta da Polsat che ho diretto insieme a mia figlia e mia sorella. Per questo dico che nella sostanza non è cambiato nulla nel mio lavoro.

Negli ultimi anni a Cracovia i signori di Bollywood hanno trovato troupe preparate, sfondi innevati e architettura gotica a volontà. Che cos’altro dovrebbe fare il PISF (Istituto Polacco dell’Arte Cinematografica) per attirare maggiormente i produttori dall’estero?

Per quanto le nostre maestranze possano essere preparate la situazione non cambierà fino a quando il paese non si deciderà a concedere sgravi fiscali ai produttori. Il lobbying fatto in casa del PISF non ha dato ancora i frutti sperati. Ad ogni cambio di governo bisogna ricominciare tutto da capo.

Il finale di Red Spider (2015) diretto da Marcin Koszalka rimanda a quello di Krzysztof Kieslowski in Breve film sull’uccidere (1988). Secondo Lei ci si alcuni autori giovani che sembrano seguire i postulati della generazione dell’inquietudine morale?

Erano altri tempi. La mia generazione aveva trovato energie insperate per tradurre a cinema il senso di oppressione della realtà in cui vivevamo negli anni Settanta. Il nostro senso di inquietudine e i nostri sospetti si sarebbero rivelati poi fondati con l’imposizione della legge marziale. In Europa molti sanno che stiamo vivendo un momento non facile da quando il PiS ha preso le redini del paese. Speriamo che le nuove leve trovino la forza di reagire in modo creativo all’autoritarismo della nostra classe politica e andare oltre ad una certa prudenza borghese che ho riscontrato negli ultimi tempi.

Il serial Ekipa era ispirato proprio al clima politico che si respirava ai tempi dal precedente governo dei fratelli Kaczynski ai tempi della lustracja, caratterizzato da una stagione del sospetto. Che cosa è cambiato secondo Lei con il ritorno al potere del PiS?

Gli attacchi del PiS contro i media e la giustizia si sono moltiplicati. Stiamo attraversando una fase di “totalitarismo leggero”. E questo è sotto gli occhi di tutti. Intanto la società polacca è sempre più polarizzata. Jaroslaw Kaczynski è bravissimo nel fare una cosa: fomentare divisioni all’interno del paese per raggiungere i suoi scopi.

A novembre scorso il Ministero della cultura è intervenuto a Wroclaw per bloccare una pièce del premio Nobel austriaca Elfriede Jelinek. Anche la libertà di espressione è a rischio secondo Lei?

Le azioni dei politici al governo parlano da sé. Per fortuna La morte e la fanciulla interpretata anche da due attori porno cechi è andata comunque in scena al Teatro nazionale di Wroclaw che vive anche in parte di finanziamenti pubblici. Se il governo decidesse di chiudere il rubinetto allora ci sarà davvero ben poco da fare.

Ma queste cose non succedevano anche prima del ritorno al potere del PiS?

Purtroppo le persone disposte ad autocensurarsi esistono sotto ogni governo. Due anni fa al Malta Festival di Poznan la direzione della rassegna ha deciso di cancellare all’ultimo momento la messa in scena di Golgota Picnic per evitare accuse accuse di blasfemia. Non c’e niente di peggio della mancanza di coraggio.

Difficile tornare a parlare di cinema adesso. Sta lavorando a qualche progetto per il grande schermo in questo periodo?

Adesso sono alle prese con l‘adattamento in pellicola di “Pokot” (una parola di difficile traduzione in italiano che si riferisce alla cerimonia di presentazione delle prede dopo una battuta di caccia in Polonia ndr) tratto da un romanzo di Olga Tokarczuk. Sarà un thriller ma all’insegna dell’ironia. Capisce adesso perché dico che non ho mai abbandonato il grande schermo?