Alcuni libri si rivelano importanti, al di là del loro contenuto specifico, perché capaci d’incarnare il ruolo di sintomi storico-culturali in grado di riflettere alcune caratteristiche del loro mondo di provenienza. L’ultimo saggio di Sean Carroll, Sulle origini della vita, del significato e dell’universo Il quadro d’insieme (traduzione di D.A. Gewurz, Einaudi, pp. 499, € 36,00) ha il pregio di aspirare in modo programmatico a un ruolo tanto impegnativo. Già il sottotitolo – «Il quadro d’insieme», con l’articolo determinativo – illustra l’intenzione di stilare un bilancio delle conoscenze oggi a disposizione su vita umana e universo cosmico, con l’ambizione di produrre l’analogo moderno dell’antica storia universale, uno sguardo completo e veritiero sul mondo conosciuto.

Diversamente dalla prospettiva che fu, per esempio, di Polibio, Carroll – fisico presso il California Institute of Technology – antepone per importanza l’aggettivo al sostantivo: quel che conta è parlare dell’universo, solo in un successivo giorno da stabilire si arriverà forse alla storia.

La ragione non è biecamente disciplinare (il fisico che elogia la fisica) ma teorica. Nei capitoli iniziali, Carroll spiega come, prima ancora della storia, sia la nozione di tempo a recitare la parte di variabile contingente nello sviluppo dell’universo. Fino al Big Bang (l’episodio che alcuni miliardi di anni fa avrebbe dato origine al dispiegamento degli spazi galattici), non c’era entropia, cioè aumento di disordine in un sistema fisico.

Per la successione ordinata tra passato, presente e futuro, sono necessari i movimenti di dissipazione energetica che animano oggi l’universo, gli unici in grado di stabilire la linea del prima e del poi. Radicale, dunque, il cambiamento di prospettiva cui richiama il libro: non si dà un universo che muta nel tempo, giacché il tempo è una forma transitoria di quel che accade nell’universo.

Crocevia teorico
La manovra argomentativa si dirama, a questo punto, verso due strade complementari. A carattere scientifico la prima: in un paio di ampie sezioni, Carroll si assume l’onere di una descrizione accessibile dei progressi più significativi della fisica contemporanea. Con invidiabile piglio narrativo, il libro illustra il carattere controintuitivo della meccanica quantistica (nella quale non si danno corpi ma solo «funzioni d’onda») e la teoria che concilia questo livello esplicativo con la fisica classica di Newton e la relatività di Einstein (la cosiddetta «core theory»). Subito dopo, Carroll riepiloga i cardini dell’evoluzionismo darwiniano e della filosofia della mente (Turing, Searle, Dennett) per mostrare la congruenza di risultati ottenuti tra diversi campi del sapere, in un paziente lavoro di tessitura che serve a dare corpo al secondo obiettivo: illustrare la proposta filosofica del «naturalismo poetico».

Carroll propone con risolutezza una visione materialista e laica dell’universo, dedicando pagine appassionate a sostenere la possibilità di una descrizione razionale di quel che esiste, in quanto fondata sul principio. per cui «il mondo che ci viene rivelato dall’indagine scientifica è l’unico vero mondo». I dati che emergono da questa indagine metterebbero in crisi le convinzioni di chi ha fede nel disegno di un creatore supremo. Se l’universo fosse progettato per la nascita della vita, perché metterne in piedi uno nel quale la vita costituisce un’eccezione periferica? Perché organizzare una struttura fisica della materia così caotica, simile a una «baraonda», con ad esempio «due famiglie di particelle più pesanti che non svolgono alcun ruolo» per lo sviluppo organico?

Tra illuminismo e postmoderno
Al di là della cogenza di interrogativi forse troppo polemici per cogliere il bersaglio (l’opera di dio è tale perché imperscrutabile, potrebbe ribattere il credente), Carroll affronta uno snodo sintomatico. Per un verso, il suo è l’illuminismo aggressivo di chi intende smascherare l’infondatezza logica di credenze religiose e superstizioni magiche. Dall’altro, la sua è una apertura postmoderna verso la varietà dei racconti, tema che oggi conquista grande spazio anche tra scienziati cognitivi e filosofi.

Possiamo parlare di «coscienza», «significato» e «valori», chiarisce Carroll, non perché questi abbiano uno statuto che esula dall’organizzazione quantistica delle cose, ma perché si tratta di descrizioni «efficaci» seppur valide in domini limitati, come l’etica o l’estetica.

Due volti si profilano dunque alla lettura: la brillante proposta di una teoria scientifica unificata circa la struttura dell’universo, dal Big Bang fino all’Homo sapiens. E un’altra prospettiva d’insieme, dove si tenta di condividere la tendenza contemporanea (importante proprio perché slegata da idiosincrasie autoriali) a fondere orientamenti teorici che solo un paio di decenni fa avremmo visto su fronti ferocemente avversi. Il primato della fisica (il naturalismo più hard) si promette in matrimonio alla varietà – a suo tempo descritta da Lyotard ed esaltata da Vattimo – delle forme di racconto e del loro presunto carattere armonico (il poetico più soft).

La fame di un modello unitario rischia di partorire eclettismi inscalfibili, che al pensiero critico affidano il compito residuale del vigile urbano. Il lavoro «a tempo pieno per i filosofi», precisa l’autore, sarebbe indagare sulle forme indebite di mescolamento tra i diversi tipi di storie. È proprio l’ambizione universalista del libro a suggerire, però, quanto sia impervia una simile opera di distinzione. I due volti del testo finiscono, infatti, per diventare strade teoriche tra loro alternative. La via poetica propone una «terapia esistenziale» che si richiama a Camus, in grado di prendere sottobraccio l’idea secondo cui «la comparsa della coscienza è una transizione di fase come l’ebollizione dell’acqua». Poi, a una appendice agguerrita contenente «l’equazione alla base di tutti noi», segue la conclusione per cui «il mondo è bello perché vario». Ma è un’apertura che paga pegno: perché l’armonia tra natura e poesia disattende l’appello a distinguere i contesti.

Il dio della fisica
La via naturalista, dal canto suo, evita la commistione tra generi di discorso al prezzo di installare una rigida gerarchia. Solo il vocabolario della fisica sarebbe fondamentale, perché le singole situazioni storiche produrrebbero «vocabolari legittimi» in termini esclusivamente «locali». Qui, l’anima eclettica del saggio cede il passo alla necessità di un nocciolo teorico indubbiamente più coerente, ma talmente duro da riproporre su carta lo scenario cinematografico illustrato dal Decalogo I da Krzysztof Kieslowski. Il tentativo di far fuori la religione mediante la fisica di una storia universale non corre il rischio di profanare credenze remote. Esattamente il contrario: accarezza l’idea di fare della fisica il proprio dio.