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Big Bang Letta perde il suo discorso forte e lo ritrova troppo tardi. I berlusconiani inseguono le piroette del Cavaliere applaudendole tutte. La nuova maggioranza è come la vecchia, ma ha un nucleo di «affidabili» di cui nessuno si fida. Cronaca di una giornata che doveva essere storica
Big Bang Letta perde il suo discorso forte e lo ritrova troppo tardi. I berlusconiani inseguono le piroette del Cavaliere applaudendole tutte. La nuova maggioranza è come la vecchia, ma ha un nucleo di «affidabili» di cui nessuno si fida. Cronaca di una giornata che doveva essere storica
Dei cinque ministri cui dovrebbe essere affidato il futuro post berlusconiano ce n’è solo uno ai banchi del governo quando Enrico Letta, puntuale come chi non è riuscito a dormire, entra nell’aula del senato e comincia la sua «giornata storica». C’è Quagliariello, che si fa spazio per non risultare troppo ai margini, arrivano un attimo dopo De Girolamo e Lorenzin, ancora un po’ ed ecco Lupi a discorso iniziato. Ma non c’è Alfano. La poltrona del capo degli indipendentisti del Pdl è quella accanto al presidente del Consiglio, vuota è un punto interrogativo che distrae il premier finchè il suo vice non compare scivolando silenzioso come un delfino fuori dal branco.
Letta aveva annunciato un discorso forte, ne legge uno lungo. Sul problema della decadenza di Berlusconi gli si abbassa la voce e accellera il ritmo, si accontenta di ripetere che questioni giudiziarie e questioni politiche devono restare separate. Non parla più di umiliazioni né di frittate rivoltate e così non scontenta i ministri del Pdl che seppure «diversamente» restano berlusconiani convinti che il Cavaliere sia un perseguitato. Anche il programma è una conferma, lo stesso di cinque mesi fa per un orizzonte che si è fatto più breve: un anno al massimo. Niente cambia per Iva e Imu, riforme costituzionali come prima e più di prima, promesse di crescita e desideri di stabilità. La durezza attesa evapora in un elogio degli anni del centrismo democristiano, l’eterna tattica di smussare gli angoli funziona e porta in dote 24 firme di senatori disposti a seguire Alfano.
A metà mattina l’operazione sganciamento da Berlusconi sembra riuscita. E la nuova maggioranza sul punto di nascere: ci sono quelli che fanno il sacrificio – quattro ex grillini – quelli che si tormentano prima di decidere che proprio non possono – i sette di Sinistra e libertà – i duri e puri del Pdl che esplodono in insulti al governo che dopo poco saranno costretti a rimangiarsi. Berlusconi era comparso sulla soglia assieme all’ultra falco Verdini, una dichiarazione di intenti, per finire immediatamente travolto dall’affetto di Scilipoti nel frattempo tornato lealista. Solo quattro o cinque senatori tra quelli seduti a destra avevano applaudito Letta, ma il pallottoliere dei transfughi segnava già i numeri sufficienti alla fiducia, oltre che alla nascita di un nuovo gruppo da battezzare «I Popolari». Berlusconi sembrava avviato all’opposizione.
Ma se, come recitava lo slogan di un congresso del Pds degli anni in cui Letta era vicesegretario di altri Popolari, «il futuro entra in noi molto prima che accada», anche il passato fa delle brutte sorprese. Ed è piuttosto difficile da mollare. L’aveva capito Casini, un sincero estimatore di Berlusconi, preannunciando a Letta una maggioranza «amplissima». In quel momento l’aula era invece semivuota, spariti tutti i senatori regolarmente berlusconiani per un’assemblea nella quale veniva confermata la linea della sfiducia. È vero che il Cavaliere cambia spesso opinione ma le ultimissime appaiono definitive: Letta è «inaffidabile» e le elezioni «inevitabili». La tattica però non è un’esclusiva dei democristiani, ai quali anzi manca spesso quel sovrappiù di spregiudicatezza che consente i salti mortali.
Verdini si distrae cinque minuti scherzando proprio con due che considera traditori, Lupi e De Girolamo. Letta fa la sua replica riuscendo ad ammorbidire il già morbido, fa l’elogio del travaglio nel senso della sofferenza degli indecisi. Chiede ai senatori quel «coraggio» che nega a se stesso. Offre solidarietà alla ex grillina De Pin che è stata insultata dai 5 stelle e ne nasce un parapiglia. Un po’ per la reazione dei grillini doc, un po’ perché Scilipoti si mette a gridare in diretta tv per ricordare che quando insultavano lui per quel celebre «tradimento» nessuno lo aveva difeso. Viene depositata la risoluzione di appoggio a Letta sulla quale Letta chiede la fiducia e c’è anche la firma della senatrice abruzzese Federica Chiavaroli, scelta come rappresentante dei 24 «scissionisti». Sono le forze fresche del governo, divise in quattro gruppi: sei siciliani, quattro calabresi, quattro del gruppo Gal e infine un nucleo di personalità più note dell’area ultracattolica (Formigoni, Giovanardi, Sacconi), navigatori sperimentati (il vecchio Colucci in parlamento dal ’72) o moderati di ritorno (Augello). Fatica sprecata cercare tra loro un filo politico, per agganciarli Letta ha dovuto misurare le parole e non infierire su Berlusconi.
E così Berlusconi torna in aula, giusto il tempo di sentire Monti sognare un Pdl a guida Alfano e un Pd a guida Letta, colonne di un’ideale «alleanza riformista». Con l’occhio alle gelosie dei loro partiti, Alfano fa ampi cenni di dissenso e Letta agita le mani per dire calma, calma. Non precorriamo i tempi. E intanto tocca al Cavaliere cui il senatore Razzi ha offerto rapido carta e penna. Non servono, Berlusconi parla a braccio, la mani giunte sulla pancia. E fa la capriola, spiegando che sentire Letta – l’inaffidabile – parlare di riduzione delle tasse lo ha convinto. L’ha convinto pure quell’accenno alla condanna di Strasburgo sulle carceri da rispettare, auspicabilmente con un’amnistia. Insomma, vota la fiducia. Verdini soffia e sbuffa, un po’ isolato. Tutti quelli che avevano applaudito per la crisi subito applaudono per la stabilità intanto. Applaude anche Alfano, vincitore in trappola. A Letta sfugge un «grande» a cui togliere peso. Nel Pd sono immobili come chi viene afferrato per le gambe. Tocca subito al capogruppo Zanda che si trova un discorso scritto sulla «nuova maggioranza». Invece è quella vecchia e allora lui picchia su Berlusconi e tornano tutti i discorsi sui ricatti inaccettabili che dovrebbero servire a spingere via l’alleato. Ma è tardi. Per l’appello sulla fiducia viene estratta la lettera B e così Berlusconi può subito dimostrare a tutti che non scherzava: vota proprio sì. Solo i berlusconiani duri e puri, quelli che avevano esagerato nell’assedio al governo, si dileguano: Palma, Minzolini, Bondi, Mussolini, D’Anna. Quelli del gruppo pontiere del Gal che alla fine avevano deciso di non seguire i neo-lettiani si trovano due volte spiazzati, e spariscono anche loro. A Scilipoti basta riavvolgere le posizioni per votare la fiducia senza scrupoli.
Letta invece ha a disposizione un’ora per adattare la tattica al nemico che non fugge ma piuttosto lo insegue. Il presidente del Consiglio deve concedere il bis alla camera ed è lì che ritrova il discorso «forte» smarrito al senato. Dice che non accetterà ricatti, che la fiducia l’avrebbe avuta anche senza la capriola di Berlusconi e che è pronto a distinguere tra due maggioranze. Quella «numerica» dove purtroppo si è infilato anche il Cavaliere. E quella «politica» sulla quale fa veramente affidamento, con i suoi siciliani e i suoi calabresi.
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