Nel novembre del 1733 Antonio Vivaldi mise in scena a Venezia Motezuma, la prima opera lirica sulla conquista del Messico, argomento molto ben accolto. Nel 1780 uscì a Cesena la Storia Antica del Messico del gesuita messicano Francisco Javier Clavigero, che Leopardi avrebbe poi citato più volte nello Zibaldone: è da questi eventi lontani che nacque la curiosità italiana verso gli aztechi, destinata a superare l’iniziale parzialità secondo la quale sarebbero stati nient’altro che un popolo crudele e sanguinario, sottomesso a divinità diaboliche. L’interesse aumentò nel Novecento, grazie ai diari dei viaggiatori che a più riprese visitavano il paese, e a partire dagli anni Sessanta si cominciarono a pubblicare volumi di taglio più scientifico, di provenienza nordamericana e francese, con importanti contributi recenti di studiosi messicani e italiani.

Il saggio di Camilla Townsend, Il quinto sole Una nuova storia degli aztechi (Traduzione di Daniela Salusso, Einaudi, pp. 350, € 32,00) è un ulteriore tassello, meritevole di attenzione, che fin dalla struttura del libro esibisce un primo indizio di novità: il  taglio diacronico, dalle origini al 1620, lascia in secondo piano le descrizioni della religione, della vita quotidiana, delle tradizioni, che occupavano molte pagine degli studi passati. Già presente in altri autori della scuola nordamericana, questo impianto viene integrato con un’aggiunta originale: Townsend comincia ogni capitolo con la presentazione biografica di un personaggio realmente esistito, scelto in qualità di paradigma del periodo spiegato nelle pagine seguenti: un «atto immaginativo, forse pericoloso per un’opera storica» – commenta la stessa autrice, capace tuttavia di guidare i lettori in territori complessi.

La selezione delle fonti attinge – altra novità – a un corpus di testi in lingua nahuatl risalenti ai decenni successivi alla conquista spagnola e opera di cronisti autoctoni, mentre solo marginalmente Towsend si rivolge a informazioni provenienti dagli scavi archeologici e dalle cronache spagnole. La «visione dei vinti» – come l’aveva indicata Miguel León Portilla – si concentrava abitualmente  solo sull’arrivo degli spagnoli e sul conseguente crollo dell’impero azteco, mentre Townsend utilizza le fonti originali per indagare sia le origini che la resistenza di fronte agli invasori europei.

Per quanto gli otto capitoli del libro affrontino temi che non sempre possono consistere di vere e proprie «rivelazioni», tuttavia ne risulta rinnovata la visione d’insieme della traiettoria storica degli aztechi (o, più correttamente, dei Mexica, il nome con cui loro si definivano).

Il racconto delle origini non contiene molti elementi inediti, ma riesce a concentrare in modo convincente le ricerche di vari decenni sulle epoche più antiche del continente. Vi si trovano le descrizioni del gioco rituale della palla, dell’uso delle coltivazioni galleggianti chiamate chinampas, o delle pratiche religiose legate ai sacrifici umani, che Townsend ridimensiona in modo significativo. Lo spazio maggiore è occupato dalla «storia politica» dei Mexica, costituita da un complesso sistema di alleanze dinastiche gestito da governanti che riuscirono a dominare in breve tempo popolazioni tributarie, distribuite in  gran parte delle regioni centrali del Messico. L’autrice usa le fonti originarie per ricostruire nel dettaglio la vita a Tenochtitlan, la città costruita al centro del lago, il cuore di quello che gli spagnoli chiameranno un impero, e proprio quelle fonti le permettono di disegnare una nuova immagine di Montezuma, il protagonista dell’incontro con Hernán Cortés: l’uomo pavido e incerto si trasforma negli scritti in nahuatl in un governante energico, con un programma di cambiamento portato avanti con successo nei primi anni del suo governo, per costruire un’amministrazione che si occupava di ogni aspetto della vita sociale, dal commercio all’educazione, dall’esercito alla religione.

I due capitoli sugli anni cruciali della conquista riprendono in parte il precedente libro di Townsend dedicato a Malintzin, la donna interprete di Cortés, che ebbe un ruolo centrale nell’invasione spagnola, messa qui in parallelo con Tecuichpotzin, una delle figlie minori di Montezuma. Sebbene sia questa la parte meno innovativa del libro, il punto di vista femminile fornisce una visione alternativa degli eventi, peraltro complessi al punto che le ragioni della disfatta richiederebbero una spiegazione più legata a problemi interni e agli effetti devastanti delle malattie introdotte dagli spagnoli, in una combinazione lontana da altre proposte più unilaterali.

La novità più significativa del libro sta nella rappresentazione del secolo successivo alla caduta di Tenochtitlan: se nelle trattazioni consuete la storia sembra fermarsi al 1521, come se i Mexica fossero di fatto scomparsi, sottomessi e integrati nella costruzione del primo grande impero coloniale transcontinentale della storia, l’uso delle fonti nahuatl permette invece a Townsend di raccontare i processi di negoziazione e di adattamento messi in campo per riorganizzare la vita quotidiana di un popolo sotto il governo spagnolo, nel mezzo del diffondersi di epidemie e malattie che lo decimò ma non lo eliminò del tutto. Da una popolazione originaria di quasi venti milioni, la tragedia degli anni successivi all’arrivo degli europei ridusse a due milioni e mezzo il numero di coloro che venivano chiamati indios, ma nello stesso tempo gli spagnoli di ascendenza europea presenti in Messico non arrivavano a duecentomila. I Mexica sopravvissuti, costretti a ricostruire un sistema di vita in un mondo totalmente mutato, mostrarono una straordinaria capacità di adattamento e di ripensamento del proprio passato, come racconta in particolare Domingo Chimalpahin, una delle fonti principali di Camilla Townsend, che rende anche evidente l’importanza crescente dei meticci nati dal contatto tra i conquistatori e i vinti, destinati ad avere nel futuro un ruolo fondamentale nella storia del Messico.

L’aggiornato stato dell’arte sulle conoscenze sugli aztechi riportato in appendice, insieme a un’approfondita analisi delle fonti permettono di accedere a una versione alternativa della storia degli aztechi, che meritava di essere ascoltata e riportata alla luce.