Raramente gli storici dell’arte italiani hanno il dono della leggerezza e quando insistono su questioni essenzialmente accademiche diventano pedanti codificatori di un linguaggio pomposo, spesso incomprensibile. Una delle poche eccezioni a questo sapere affettato e non sempre ben digerito è quello offerto da Andrea De Marchi così come si è manifestato in una pubblicazione molto particolare, un’agenda da tavolo, simile fisicamente a quelle una volta approntate dagli istituti bancari. In questo caso è illustrata da fotografie, giorno dopo giorno, eseguite dallo stesso autore e non così lussuose come quelle che si usavano una volta, volendo dare nell’ insieme un risultato poco ricercato che anzi incuriosisce nella grazia giovanile del materiale scelto e del modo di presentarlo. Sembra ritagliato qua e là più per insegnare che per sorprendere quasi che la selezione si debba ad un giovane dilettante che segue rispettoso il proprio gusto. Fa bene. Io amo questo atteggiamento: non si impara senza diletto anche se sembra un’ovvietà.
Il materiale è molto vario e la ricerca inizia con le misteriose pitture macedoni del quarto secolo a. C. fino ad inoltrarsi nella Biblioteca Benedetto Croce, a Pollone, vicino Biella. La scelta di questo materiale, apparentemente così casuale, ben si adatta al successore della cattedra di Roberto Longhi a Firenze: ricordo ancora come l’ottimo maestro ci obbligava a indovinare ciò che la fotografia (e ancora di più i frammenti delle fotografie) rappresentava, chiedendoci innanzitutto quello che non poteva essere. Poi, lentissimamente, ci conduceva verso l’identificazione: «questa figura non è dunque Picasso, forse non è nemmeno Masaccio o Giotto… a che secolo potrebbe risalire? Perché dici così?» Ora dopo ora, sorprendentemente, ci si avvicinava per puro caso a qualcosa che era prossimo al vero. I greci chiamavano maieutica questo processo mentale. È incomprensibile quanto poco sappiamo e nello stesso tempo quel che possiamo per puro miracolo indovinare. Tutte le strade portano a Roma. La via è spesso tortuosa, errata, ma fa sempre bene camminare, anche sbagliando via si può imparare. La deduzione è semplice: per conoscere le opere d’arte bisogna vederne migliaia e ricordarne qualcuna, così come occorrono fogli bianchi e matite appuntite per poter scrivere qualche parola.
Le centinaia di foto e di ritagli sulle molte pagine che compongono questa Artgram 2021 pubblicata dal nostro amico per Mandragora (pp. 384, 1020 illustrazioni a colori, euro 35,00) sono un delizioso cesto di messaggi in codice: non bisogna darsi delle arie, i ritagli non compongono sempre un waste paper basket, e posso scommettere che molti dei miei colleghi, checché ne dicano, non riconosceranno più della metà di queste immagini. Non sono così ovvie e sembrano più informate della mostra su Leonardo di qualche anno fa alla National Gallery dove si espose la Madonna Litta di San Pietroburgo come (ancora!) opera del genio di Vinci e non semplicemente come del suo seguace Boltraffio. In quell’occasione, quando recensii quella bizzarra rassegna, non potei astenermi dallo scrivere quel che pensavo e consigliai ai lettori di copiare semplicemente la pagina dedicata a Leonardo negli Indici di Berenson: col prezzo di una xerocopia si avevano informazioni più schiette di quelle mal delineate in un intero catalogo assai costoso.
Esaminando gli squisiti francobolli voluti dal De Marchi molti esperti potranno imparare nuove cose se si lasciano andare. Alla pagina del 23 novembre della sua agenda De Marchi fa vedere uno di quei serpenti aztechi che pare piacessero a Berenson quando fece pace con Longhi nel 1958. In realtà le due antiche sfingi si erano riconciliate per i novanta anni di Berenson nel 1956 e la cerimonia si svolse senza serpenti e – nonostante i molti insulti che Longhi aveva destinato al vecchio esegeta – in grande armonia. Berenson stesso scrive nel suo diario (pubblicato postumo, Sunset and Twilight, New York, 1963) il 9 maggio 1956: «niente avrebbe potuto essere più aggraziato, umano, più familiare dell’atmosfera che ha pervaso la cerimonia. Sembrava respirarla persino il mio arci nemico, Longhi, che tra l’altro ha composto la lapidaria motivazione per la laurea onoraria, e mi è sembrata perfetta. Temevo l’evento ma si è rivelato non solo tollerabile ma addirittura delizioso, qualcosa che ricorderò sempre con piacere».
Io arrivai in Italia solo l’anno successivo per finire l’università con Longhi. Incontrai anche Berenson, già molto invecchiato (morì nel 1959) e conobbi molto bene anche Nicky Mariano, la ninfa Egeria custode del vecchissimo saggio di Settignano, e godetti della sua amicizia fino alla sua morte, un decennio più tardi. In un’occasione mi raccontò come si era svolta la festa in onore di BB col rettore dell’università di Firenze e il professor Longhi. Qualche giorno dopo Berenson e Nicky invitarono Longhi e sua moglie (Lucia nella vita reale, Anna Banti come scrittrice) ad un pranzo nel quale si teneva una sola conversazione guidata dal padrone di casa. Nel rispettoso silenzio che imperava si sentì Berenson che rivolgendosi a Longhi diceva: «caro amico, mi dica, come si vive accanto ad un genio come fa lei?». Longhi tacque, la Banti sorrise. Ho raccontato questa vicenda più volte e qualcuno l’ha pure ripetuta. Ormai credo di averla sentita di persona e così è, o quasi.
Forse per dolcificare quella sua bizzarra frase, nel giugno 1957 Berenson scrisse nella prefazione ad uno dei suoi ultimi libri: «nulla di importanza permanente negli studi veneziani è apparso nei passati trent’anni eccezion fatta del riconoscimento dell’Ebbrezza di Noè di Besançon come opera tarda di Giovanni Bellini, effettuata dal Professor Longhi». Nella sua bocca non era un complimento da poco.