Cracovia, 26 maggio 2018. Impossibile non notare il tatuaggio sull’avanbraccio destro, mentre sfoglia il libro dalla copertina nera: un lupo e un uomo senza volto. Per Agata Grzybowska (Varsavia 1984) non è una semplice citazione. E’ l’omaggio ad una sua grande “ossessione”, Il lupo della steppa capolavoro di Herman Hesse. Una certa inquietudine, del resto, appartiene anche all’indole dell’autrice di 9 Gates of No Return, che è sia un progetto editoriale (pubblicato da Blow Up Press nel 2017) che la mostra scelta da Iris Sikking per il circuito principale del Krakow Photomont 2018. Diplomata in Direzione della Fotografia alla Polish National Film School di Łódź, Grzybowska ha iniziato a lavorare come fotogiornalista per il quotidano Gazeta Wyborcza raccontando i conflitti, attraverso i numerosi viaggi in Siria, Uganda, Ucraina. In particolare, proprio dopo un pesantissimo anno trascorso in Ucrania, nel 2015, tornata a Varsavia ha sentito la necessità di prendersi una pausa, trovando nuovi stimoli in un territorio solitario come quello di Bieszczady, pieno di storie che s’intrecciano. Infatti, quella che è oggi una zona piena di attrattive turistiche, soprattutto per via della sua natura incontaminata (Parco Nazionale di Bieszczady) – all’estremità sud-est della Polonia, al confine con l’Ucraina – è stata anche teatro di uno dei più drammatici capitoli della storia polacca, sia durante la prima guerra mondiale che nel dopoguerra con l’Operazione Vistola che si è macchiata della distruzione di tutti i villaggi ebraici con le antichissime sinagoghe. Questa specie di “terra di nessuno”, dove è stato girato il primo film western polacco (Rancho Texas, 1958), dagli anni ’50 agli anni ’80 è stata la meta di un gruppo di outsider che tutt’oggi vive in giro per la foresta e nelle montagne. “In Polonia, durante il comunismo, le persone che non accettavano il sistema e volevano essere libere andavano lì perché non c’era la polizia.” – spiega Grzybowska – “Volevo capire perché quelle nove persone che ho incontrato a Bieszczady avevano scelto la solitudine, lasciandosi alle spalle tutto quello che c’era stato prima. Anche la mia è una fotografia solitaria, perché per fare il fotogiornalista devi essere solo. La donna che chiamo nonna, Magdalena, che ha oltre ottant’anni aveva un Phd, un marito e quattro figli, ma un giorno decise di lasciare la sua casa, prese il cavallo e percorse 900 chilometri prima di fermarsi a Bieszczady. All’inizio viveva solo in una tenda, poi in una costruzione di due stanze: una per lei e l’altra per il suo cavallo. Invece Jusek, l’uomo dai capelli lunghi e bianchi, vive da trent’anni in mezzo alla foresta, senza elettricità e acqua corrente. Poi ci sono Krysia, Lutek e anche Gier che è stato il batterista di Dzem, notissima blues e rock band polacca, che per disintossicarsi dall’eroina si è costruito una zattera e vive ancora lì, nel lago.” Quella di Bieszczady è una sorta di comunità hippie non codificata, dove i nove soggetti ritratti dalla fotografa con l’uso di uno stupefacente bianco e nero non fanno vita comune. Sono emblematici ed enigmatici “esuli” della nostra civiltà che, come scrive il fotoreporter Stefano De Luigi nel testo introduttivo, “non ci dicono se hanno trovato risposte. Essi hanno, però, saputo guardare più lontano di molti tra noi. Hanno accolto le parole che il vento ha gettato sui loro visi, scolpiti come rocce, come un regalo. Nessuno di loro è mai tornato indietro dal suo esilio.” Agata Grzybowska è tornata più volte in quell’area geografica sospesa in un tempo indefinito, alloggiando nella sua tenda, sempre d’inverno. “Per parlare di solutudine e melanconia non potevo che andarci in quella stagione”. In quegli inverni tipici del nord, freddissimi, quando il paesaggio è avvolto dal manto di neve, sferzato dal lamenti dei venti gelidi. Anche il silenzio, nel suo lavoro, ha una sua sonorità, attraversato com’è dalle voci delle persone che le hanno raccontano la loro vita, tra i miagolii dei gatti e l’abbaiare ostinato dei cani. “Il suono è importante quanto l’immagine fotografica, anzi qualche volta lo è ancora di più. Registro sempre ogni cosa che è intorno a me, anche quando mi trovo in mezzo ai confltti.” In mostra, alla Pauza Gallery, quei suoni sono stati interpetati da Bartosz Dziadosz e accompagnano lo sguardo, creando consapevoli interferenze, che si sposta ora sulle grandi stampe in bianco e nero che sintetizzazioneo il concetto di solitudine, con quei grandi spazi disabitati dove la natura si riappropria del tempo e della storia, ora sui ritratti che mostrano volti induriti dalla vita. Un passaggio lirico è dato dalle polaroid che segnano, con un colore lieve e l’atmosfera un po’ onirca, anche un momento di leggerezza rispetto alla fotografia meditativa espressa con l’uso del grande formato. “Volevo lavorare con diversi mezzi e la polaroid, effettivamente, è come un respiro per me.” Nel libro c’è anche una parte incentrata sugli appunti, scritti dalla fotografa sulle pagine di un quaderno che è sempre con lei. Appunti che consevano la freschezza del momento, la libertà del pensiero, accompagnando la scrittura con la luce in questo viaggio di scoperta, dentro e intorno a sé, che è intimo e, allo stesso tempo, corale.

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Space of Flows: Framing an Unseen Reality – 16^ edizione di Krakow Photomonth

Cracovia, 27 maggio 2018. Uno spazio di flussi, ovvero come fornire gli strumenti per visualizzare concetti per lo più astratti, seguendo coordinate intangibli di una realtà contemporanea che appartiene a tutti. Questo è l’attualissimo tema scelto da Iris Sikking, curatrice di base ad Amsterdam, per la 16^ edizione di Krakow Photomonth (fino al 24 giugno), condiviso dalla direttrice Agnieszka Dwernicka. Sikking, che cita il sociologo spagnolo Manuel Castells, afferma che: “Nella cultura sovraffollata dell’immagine delle nostre società contemporanee, fotografi e videoartisti sono in grado di fornire una cornice attraverso la quale vedere questa realtà a volte sconvolgente. La loro prospettiva potrebbe darci una nuova visione su una “realtà invisibile”, ma potrebbe anche spingerci fuori delle nostre zone di comfort.” Disseminate in dieci location diverse, in giro per la città di Cracovia – MOCAK, Manga Museum, Museo Etnografico, Pauza Gallery, Nuremberg House, Starmach Gallery, Szara Kamienica Gallery, Bunkier Sztuki Gallery, ZPAF Gallery – le mostre offrono una stimolante riflessione sulle declinazioni del termine “migrazione” (dagli esseri umani alla natura) attraverso il lavoro di interessanti fotografi, tra cui Michał Łuczak, Anaïs López, Agata Grzybowska, Clément Lambelet, Daniela Friebel, Łukasz Skąpski, Salvatore Vitale, Armand Quetsch, Jules Spinatsch, Mark Curran, Axel Braun, Agnieszka Rayss. Il festival, realizzato con il sostegno della Municipalità di Cracovia e del Ministero della Cultura e del Patrimonio Nazionale, include anche una sezione ShowOFF ospitata presso la Tytano Foundation – nell’ex distretto industriale, una delle zone più di tendenza della città, quartier generale della manifestazione – con i progetti di Valeria Cherchi, Antonina Gugała, Laura Ociepa, Rafa Raigón, Ksenia Sidorova, Jakub Stępień, Anna Tiessen e Marta Wódz.