Afro Basaldella, “Autoritratto”, 1936, Roma, GNAM

C’è una cesura, a prima vista insanabile, nella ricerca di Afro Basaldella (Udine 1912 – Zurigo 1976), fra quanto dipinto negli anni trenta e la nuova consapevolezza espressiva raggiunta dopo il 1945. Difficile dire se abbiano la meglio gli elementi di continuità o le differenze, ma sta di fatto che in non poche occasioni le mostre su di lui hanno isolato questa seconda parte come periodo autonomo e compiuto. Ne dà conferma, otra, Afro 1950-1970. Dall’Italia all’America e ritorno, a Ca’ Pesaro fino al 23 ottobre, curata da Elisabetta Barisoni ed Edith Devaney (catalogo Magonza, pp. 294, e 50,00): un’occasione irripetibile per vedere riuniti alcuni dei suoi grandi quadri che più volte hanno attraversato l’Atlantico, o presentati alla Biennale in snodi cruciali della sua carriera.
Eppure, una volta radunati e messi a confronto, ci si rende conto che la genesi stilistica che porterà a maturazione l’Afro più istintivo e gestuale è forse più complessa della rete di riferimenti in cui è stata finora collocata, obbligando a una periodizzazione a maglie strette del suo repertorio. Ci si rende conto, infatti, che l’elaborazione di uno stile, per un artista della sua generazione, che ha visto cambiare improvvisamente il mondo fra gli anni della propria giovinezza e quelli della ricostruzione, non è soltanto un fatto formale, ma un dato di crisi identitaria. Prima della guerra, in fondo, c’erano stati dei chiari punti di riferimento, specie dopo il trasferimento nel 1934 a Roma, assieme al fratello scultore Mirko (1910-’69), lasciando a Udine Dino (1909-’77), anch’egli scultore, il maggiore e più longevo dei tre Basaldella.
È Corrado Cagli, al loro arrivo nella capitale, la stella fissa di un modo espressionista e compatto di intendere la maniera umbratile di Scipione, gravata poi da un’inquieta poetica del «primordio». È un sodalizio stretto, il loro, di cui dà testimonianza l’affusolato Autoritratto del 1936 con cartella da disegno, oggi alla Galleria Nazionale di Roma, che non stonerebbe accanto a certi ritratti che Cagli, negli stessi anni, stava dedicando a Mirko, tutti sotto sotto le insegne della romana Galleria La Cometa.
Eppure, come la critica ha già più volte discusso in passato, non tutto si poteva spiegare con il trasferimento a Roma: Afro, nel bene o nel male, restava pur sempre un artista friulano che si era formato a Venezia, con quel bagaglio di memorie visive e sensibilità epidermiche da cui difficilmente ci si poteva separare, e che non si limita a una preziosa serie di schizzi sulla città realizzati negli anni trenta. Come per il più giovane Emilio Vedova, infatti, agli esordi ci fu una stagione di innamoramenti per la grande pittura veneziana e per quella lezione di sprezzatura pittorica, di nervosa sintesi di colore e segno che si incarnava in Tintoretto (per Vedova) e in Tiepolo (per Afro). Ci si stupisce ancora, infatti, se si pensa che lo stesso pittore nel 1938 dipinse a secco la sala da pranzo della udinese Casa Cavazzini come un rigoglioso pergolato popolato di putti, e nel 1949 sia presente al MoMA di New York a Twentieth-Century Italian Art con dei grandi totem picassiani, quasi sculture dipinte esemplate sul Picasso del monumento ad Apollinaire o delle illustrazioni per Balzac edite da Vollard: una lezione sul dissidio fra colore e disegno tutto a favore del secondo, ma preludio alla rivelazione sognante, alla Biennale del 1948, di Paul Klee.
Il breve interregno fra gli anni trenta e l’approdo nel venturiano Gruppo degli Otto (1951 e 1952) si giocava proprio su questo lavoro di partizione in superficie dello spazio della tela con un tracciato fluido e a linea continua, affidando poi al colore il compito di separare figura e sfondo, ciò che rende distinguibile nell’intreccio e nell’intersezione dei piani un’immagine fissa e frontale, origine del dispiegamento paratattico e planare degli elementi compositivi degli anni successivi a questo momento breve ma cruciale per la carriera di un colorista.
Afro capì presto che il credito internazionale di un artista passava per gli Stati Uniti, e che il consenso atlantico era la carta vincente per affermarsi nello scacchiere dell’arte contemporanea, seppure a patto di rinunciare a qualcosa delle propria identità di artista europeo. Presto non sarebbero mancati i riconoscimenti, dalla partecipazione alla mostra del 1949 a The New Decade, sempre al MoMA, nel 1955, a cui va aggiunto il grande successo delle quattro personali tenute presso Catherine Viviano fra l’apertura della galleria newyorkese, nel 1950, e il 1957. Tutto questo, con il corollario di incontri e amicizie stretti oltre oceano, avrebbe portato con sé una serie di altri eventi, dal primo premio alla Biennale del 1956 – dove è presente con una sala personale – alla commissione nel 1957 da parte dell’Unesco di un dipinto di dimensioni ambientali (non una decorazione murale) per la nuova sede parigina, dove Afro darà vita al concerto tonale de Il giardino della speranza, 1958.
La strada che porta a un Afro propriamente «americano», però, è più graduale, e forse non basta la folgorazione per Arshile Gorky o l’amicizia con Willem De Kooning a spiegare ogni passaggio di questa maturazione. I suoi quadri conservano nei titoli, ancora tutti da studiare, un referente figurativo, se non espressamente narrativo, come il Negro della Louisiana del 1951, che segue ancora il dettato picassiano ma sembra aggiornarlo sul Duchamp del famoso Nudo che scende le scale. Ma Cronaca nera del 1951 (al MoMA nel 1955) o ancor più Esemplare n. 3: Villa Fleurent del 1952 (portato a Venezia quell’anno) o Giardino d’infanzia (1951; fra i dieci quadri alla sala personale lagunare nel 1956) mostrano un disegno tutto di scrittura grafica in superficie, di sviluppo orizzontale, giustapposto a un intarsio di campiture di colore diluito che ha molti referenti nella pittura francese contemporanea: i quadri «a tasselli» dei maestri della seconda École de Paris, largamente circolanti in Italia, hanno fatto la loro parte.
Ma Afro seppe assorbire con intelligenza anche altre abitudini gestuali, e non escluderei che, accanto alla Pesca notturna ad Antibes di Picasso vista a Parigi nel 1952, un certo modo di tracciare lunghi e nervosi segni neri che vanno a chiudere la composizione in una struttura mobile ma nitida non sia in debito con alcuni esempi di Hans Hartung, magari tratti dalle pagine di «Art d’Aujourd’hui», la rivista di Bloch che con Roma intratteneva un rapporto privilegiato. I soli spiraliformi di Picasso, tramite il pittore tedesco naturalizzato francese, potevano essere assimilati anche da Afro, come da Prampolini o Santomaso, quali pure grafie di un’iconografia tutta psicologica.
Mancava poco per il salto nel puro gesto largo e veemente, come in Vedova, ma con un accordo di colori alle volte umido e vaporoso, altre asciutto fino all’arsura. Una breve sperimentazione del dripping tradisce un debito verso le retrospettive italiane di Pollock: per lui, come per Toti Scialoja, era stato un vero e proprio atto liberatorio, seppur tradotto con brio decorativo. Gorky, forse, si fa sentire, nei secondi anni cinquanta, proprio nel momento in cui «Arti Visive» dedica al pittore udinese la copertina del numero 5 (1956), riservando il 6-7 (1957) al maestro armeno naturalizzato statunitense: i riverberi di un mondo galleggiante hanno lasciato il posto a improvvisi, sinfonici sprazzi di luce-colore.