Gli ultimi a entrare sono stati migliaia di sostenitori, da Rojava e dal Bashur, Kurdistan siriano e iracheno: due carovane sono arrivate lunedì per portare sostegno concreto.

Poco dopo, Afrin è stata circondata su ogni lato: l’assedio è cominciato. Dentro la principale città del cantone curdo-siriano, oggetto dell’operazione militare turca «Ramo d’Ulivo», ci sono 350mila persone (un milione nel cantone), la metà sfollate da altre zone della Siria.

Da Raqqa, Aleppo, Idlib, avevano trovato rifugio qui per ritrovarsi prigioniere di un’altra guerra. A combatterla attori simili con in testa la Turchia che dal 2011 finanzia e sostiene più o meno direttamente le opposizioni al governo di Damasco, tanto le «moderate» quanto le islamiste.

Ieri il governo di Ankara celebrava l’assedio di Afrin come avesse sconfitto, o si preparasse a sconfiggere, un esercito regolare e ben armato. Ma di fronte ai carri armati e ai miliziani con in braccio armi della Nato ci sono civili, decine di migliaia di famiglie curde, arabe, turkmene e combattenti di unità di difesa popolare con in spalla fucili e poco più.

Cosa ne sarà di Afrin? Il timore di un massacro rimbomba insieme ai raid aerei, incessanti da giorni, che ieri hanno di nuovo colpito civili nel centro cittadino. Le truppe turche e i migliaia di miliziani al soldo di Ankara avanzano da sud-est e nord-ovest lasciando aperto un solo corridoio, quello verso Aleppo e le zone controllate dal governo di Damasco: ieri circa duemila civili sono arrivati nella zona di Nbul, altre centinaia sono tuttora in fuga.

La realtà che si sta concretizzando è quella che Ankara insegue da anni, una zona cuscinetto al confine (quasi l’intero distretto di Afrin è occupato, con villaggi e cittadine caduti in mano all’esercito turco) che lambisce la provincia nord-occidentale di Idlib, in mano a qaedisti e jihadisti anti-Assad. E che si allargherà: le minacce del presidente Erdogan di arrivare al confine con l’Iraq, nel profondo est, hanno trovato ieri le orecchie giuste ad ascoltare.

L’annuncio è del primo ministro turco Cavusoglu: Ankara e Washington stanno pianificando l’evacuazione congiunta delle Ypg/Ypj (le unità di difesa popolari curde) da Manbij, città a metà strada tra Aleppo e Kobane, liberata nel 2016 da una neonata federazione multietnica e multiconfessionale, le Forze Democratiche Siriane. Secondo Cavusoglu, l’accordo sarà definito il prossimo 19 marzo e imporrà uscita di Ypg/Ypj e consegna delle armi.

Una soluzione unilaterale che non prevede la consultazione della popolazione e che permetterebbe agli Stati uniti di uscire dalla contraddizione in cui sono infilati da mesi: è a Manbij che stazionano duemila marines, forza attiva nell’offensiva e la liberazione di Raqqa, il 17 ottobre 2017.

Nel caso salti, la Turchia procederà in solitaria con una nuova operazione militare. Il primo ministro non lo specifica ma è scontata l’occupazione di Manbij, che nel frattempo ha seguito il modello del confederalismo democratico di Rojava, autogestendosi con un’amministrazione autonoma multietnica.

Quattrocentro chilometri più a sud un altro accordo permetteva di salvare centinaia di malati e feriti della Ghouta orientale: l’evacuazione, annunciata dalla tv di Stato siriana, è stata poi confermata dall’Onu e dalle immagini dei civili usciti dal valico settentrionale di al-Wafideen.

L’intesa tra il gruppo salafita Jaysh al-Islam e la Russia è stata raggiunta tramite la mediazione delle Nazioni Unite e ha riguardato alcuni dei circa mille feriti bloccati nell’enclave sotto assedio interno ed esterno, i primi ad essere effettivamente evacuati a due settimane dalla «pausa umanitaria» ordinata dal presidente Putin e mai realmente realizzata. Ma gli scontri continuano: secondo fonti di opposizione, ieri sono morte oltre 40 persone.