Alcuni brani da una serie di interviste rilasciate da Idrissa Ouedraogo a Cristina Piccino e Luciano Barisone e pubblicate sulle pagine del manifesto tra il 1987e il 1990.

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«Io non parto mai da una sceneggiatura. Preferisco fare tutto sul set, adattando dialoghi e parti alle reali personalità dei miei attori, prendendo da loro ciò che sono in grado di darmi, piuttosto che forzarli a fare ciò che ho in testa. Così, quando devo girare un’inquadratura, spiego loro semplicemente ciò che voglio ottenere, l’emozione che la scena dovrebbe comunicare. Poi li lascio liberi di esprimersi».

CINEMA È COMUNICARE

«Ciò che mi interessa fare con il cinema in generale è comunicare, in una lingua universalmente accessibile quale l’immagine, con un popolo che, essendo frazionato in quarantadue etnie diverse, parla molte lingue. Ma comunicare in maniera ottimale è difficile, perché si lavora in condizioni tecniche piuttosto modeste e non ci sono attori professionisti. Questo non permette di ottenere quella gamma di espressioni vocali e di comportamento, che, provocando delle emozioni, rendono più comprensibile il messaggio».

I AM AFRICAN

«Vuole dire essere un uomo come gli altri, e non dover più lottare per dimostrare di esserlo. Ci sono stati dei momenti molto duri nella nostra storia. Per anni abbiamo subito tacendo. Poi abbiamo reagito e abbiamo sentito il bisogno di magnificare tutto della nostra condizione («Black is beautiful!»). Sono stati dei momenti legittimi. Oggi tutto questo ci rimane nella memoria, ma viviamo in un mondo in cui comunichiamo con altri popoli: dunque il miglior modo di far vedere che esistiamo non è gridarlo, ma di essere ciò che siamo».

LA PERCEZIONE DEL PUBBLICO

«Solleva delle discussioni, ma anche sulla base di sottigliezze che sfuggono a voi occidentali. È la percezione che è differente. Per esempio, una scena del mio film (Yam Daabo, 1987, ndr) che ha sollevato discussioni di questo genere è quella del funerale: molti hanno detto che non è realistica, perché in Africa non accade mai che due persone sotterrino da sole un loro familiare, questo di solito avviene di fronte a tutto il clan. Ora, vedere due persone sole seppellire il loro bambino cinematograficamente crea più emozione; ma essi non lo capivano e dicevano solo che non era ‘africano’. Bisogna dunque fare molta attenzione, perché noi abbiamo una cultura cinematografica, ma in Africa ci sono uomini e donne che non ce l’hanno ancora. Così, se si va un po’ più lontano, si rischia di non essere capiti».

IL MERCATO

«Penso che il cinema sia un’attività. Può essere nazionale o continentale ma alla fine la ricerca dei finanziamenti è sempre individuale. Perciò è importante gettare le basi di una cooperazione effettiva, non assistenziale più solida. Ad esempio il rapporto con la televisione dal punto di vista produttivo è molto importante, in Francia ma credo anche in Italia è diventato quasi impossibile fare un film senza l’appoggio finanziario televisivo. Questo però non deve impedire ai cineasti di continuare a pensare per il cinema, con la stessa forza di immaginazione».

LA MUSICA CAMBIA

«Fino a Yaaba ho sempre scelto prima la musica e poi ho girato. In Tilat è accaduto il contrario e ho contattato Abclullah Ibrahim. È un musicista straordinario è per me il cinema non è solamente immagini Ho sentito che la musica del suo pianoforte era quella adatta, anche se già immagino che molti si chiederanno cosa ci faccia un pianoforte in un film africano. Anche la musica africana è in evoluzione e una certa stampa come anche alcuni intellettuali occidentali devono stare attenti a non creare un nuovo esotismo nei riguardi dell’Africa. Noi stiamo cambiando velocemente».