«Succederà a Tojal. E Tojal è vicino ad Arouca e lontano da tutto il resto». Il contesto in cui apprendiamo la storia dei due fratelli protagonisti, uno professore universitario quarantenne, l’altro Miguel, di poco più giovane e affetto dalla sindrome di Down, è il viaggio verso un desolato paesino dell’entroterra del Portogallo. Alla guida, attraverso il curvilineo andamento della strada, il fratello maggiore, cui è affidata la anonima voce narrante di Mio fratello, romanzo d’esordio dello scrittore portoghese Afonso Reis Cabral, vincitore nel 2014 dell’importante premio LeYa, ora edito da Nutrimenti nell’eccellente traduzione di Marta Silvetti (pp. 336, e19,00).
Tojal è punto di arrivo del viaggio e, al tempo stesso, punto di partenza per un altro percorso, compiuto attraverso la memoria, un viaggio il cui scopo è ritrovare l’autenticità dei vincoli familiari indeboliti da anni di distacco del fratello maggiore. Dopo la morte dei genitori, l’uomo decide infatti di vincere l’apatia e la solitudine della sua vita facendosi «custode» del fratello minore, «ultimo baluardo», e movente di «redenzione» da quella anaffettività che i successi professionali («onestamente, è più facile dedicare tempo ai lemmi che mantenere amicizie e amori molto spesso incompresi o non corrisposti») non compensano.

Superando «le curve del primo capitolo» e seguendo il tortuoso percorso della narrazione, che alterna passato e presente, si arriva al centro di questa «specie di confessione in forma di libro», dove la voce narrante si sdoppia, intercalando al racconto dei fatti le riflessioni più inconfessabili del narratore, segnalate tipograficamente in corpo minore.

Trattando di un tema che, per circostanze autobiografiche, Afonso Reis Cabral conosce da vicino, Mio fratello affronta la disabilità senza accenti di commiserazione e rappresenta con cinismo un rapporto fraterno segnato dalla rivalità e dalle incomprensioni – «io ero nato intelligente e perfetto, lui era nato incapace di intendere e di volere e incompleto» – che sfociano in una crudele ironia, riflesso dei sentimenti controversi del narratore.

Fratello minore da accudire e proteggere ma anche bersaglio di rabbia e risentimento – «non pensava alla vita ‒ era la vita, la respirava con naturalezza» – Miguel suscita l’invidia del fratello maggiore che sente di dover lottare per ogni cosa, pur sapendo che, in fondo, si tratta di «una battaglia persa». Ed è principalmente il bisogno di amare e di essere ricambiati ciò per cui il narratore sembra combattere e che esprime, in maniera distorta, nei confronti del fratello. Miguel, infatti, è capace di un «amore in carne ossa, amore in forza bruta»: lo prova per Luciana, una ragazza conosciuta al centro per disabili e «ragione del suo respiro». All’intensità dei sentimenti di Miguel per la donna corrisponde un crescendo di frustrazione e gelosia da parte del fratello, culminata in uno sconcertante epilogo che dissolve qualsiasi certezza e riavvolge il filo della narrazione.
«Non c’è niente di peggio che essere prigionieri di chi ti ama» scrive Reis Cabral consegnandoci la storia di un amore feroce che si nutre del bisogno dell’altro: «più lui è infelice, più io sono felice. Sono felice di aiutarlo», e che smaschera l’inconsistenza delle categorie di normalità e anormalità anche attraverso l’uso di un linguaggio intenzionalmente crudo e eccessivamente carico, svuotato di connotazioni offensive. I sentimenti contrastanti che animano il narratore si riflettono sulla struttura del romanzo che si rivela, come dichiarato esplicitamente nel testo, una confessione delle sue colpe, tutte abilmente giustificate da presunte buone intenzioni, che restano tuttavia impunite, lasciando il lettore disorientato e turbato.

Mio fratello non si propone di raccontare la sindrome di Down, bensì di smentire molti luoghi comuni: la disabilità di Miguel è una condizione non più limitante dell’indifferenza e dell’incapacità di riconoscere la soggettività del prossimo da cui sembra affetto il fratello maggiore, al quale il titolo del romanzo sembra dunque propriamente alludere.