«Il disastroso ritiro da Kabul dovrebbe rappresentare un eterno monito per i futuri statisti affinché non ripetano le politiche che hanno portato a un risultato tanto amaro quanto lo è stato quello registrato nel 1839-1842». Così scrisse il capitano George St Patrick Lawrence (1804-84), un veterano della prima guerra anglo-afghana del 1839.

Nei mesi antecedenti allo scoppio del conflitto, la Gran Bretagna investì ingenti risorse con l’obiettivo di imporre in Afghanistan Shah Shuja Durrani, un sovrano «sensibile» agli interessi di Londra che beneficiò tra l’altro di una pensione elargita dalla Compagnia britannica delle Indie orientali. Larga parte della popolazione locale lo considerava un uomo violento e corrotto: le proteste contro l’imposizione del neo-despota e di chi lo sosteneva (Londra) sono alla base della catena di eventi, nonché delle emozioni, condensate nelle parole di Lawrence.

Nel 2001, all’alba dell’invasione dell’Afghanistan, il ruolo e le lezioni della Storia non erano certamente in cima alle priorità dell’allora presidente statunitense George W. Bush, né a quelle del suo omologo britannico, Tony Blair. La sete di giustizia, o vendetta, per il ruolo di al-Qaida – legato a doppio filo all’Arabia Saudita e al Pakistan, prima ancora che all’Afghanistan – nei crimini compiuti l’11 settembre 2001 non lasciò sufficiente spazio ad altre considerazioni.
Anche le enormi complessità sociali, politiche e culturali proprie del contesto Afghano non rivestirono un ruolo prioritario, sia in ambito politico quanto nel più ampio dibattito pubblico.

D’altronde, per larga parte dell’Otto-Novecento, numerosi cronisti americani hanno utilizzato il termine Afghanistanism quando intendevano far riferimento a problemi oscuri, o a misteriose terre lontane.

Una commistione tra rabbia selettiva (indirizzata contro l’Afghanistan, piuttosto che ai danni degli «alleati» sauditi e pakistani), ignoranza (della Storia, in primis) e interessi economico-politici (a beneficio di una miriade di società che vanno molto al di là del solo comparto legato alla «Difesa») hanno creato le condizioni strutturali alla base di una delle peggiori carneficine e devastazioni del nostro tempo. È da qui – nonché dai volti che si celano dietro a molti numeri e dati – che occorre partire per comprendere le radici del presente, nonché i potenziali reverberi nel futuro.

Il passato del presente
Grazie alla divulgazione di una serie di documenti riservati riconducibili alla CIA, è stato provato che, solo per rimanere al periodo tra il gennaio del 2012 e il febbraio del 2013, circa il 90 percento delle persone uccise da droni statunitensi erano «vittime collaterali»: semplici passanti che si trovavano nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Ciononostante, sono stati classificati da Washington sotto la voce «nemici uccisi in azione».

In questa medesima categoria vanno inclusi anche Sumaya e Farzad e gli altri 5 bambini uccisi a Kabul lo scorso 29 agosto nel «raid di autodifesa» condotto appena prima del ritiro dei soldati statunitensi dal Paese. Sumaya e Farzad rientrano nelle circa 176mila persone uccise nel corso di due decenni di guerra in Afghanistan. La «più lunga guerra della storia degli Stati Uniti» (2001-2021) ha fatto registrare anche la morte di oltre 2300 soldati statunitensi (molti dei quali giovani, provenienti da famiglie con scarsi mezzi economici, arruolatisi per poter accedere ai fondi necessari per frequentare le università americane): un prezzo enorme che, sommato all’inarrestabile ritorno sulla scena dei Talebani, – i quali già nel 2013 controllavano il 60 percento dell’Afghanistan – ha spinto la nuova amministrazione democratica guidata da Joe Biden a velocizzare il disimpegno concordato dal suo predecessore, Donald Trump.

Oltre alle vite umane, anche gli ecosistemi, l’economia, la cultura e le tradizioni di interi popoli vanno annoverati tra i costi di una guerra. Nelle parole dell’attivista Kathy Kelly, coordinatrice della Ban Killer Drones campaign, gli Stati Uniti e ogni Paese che ha «invaso e occupato l’Afghanistan dovrebbe farsi carico delle riparazioni: non solo riparazioni finanziarie per la terribile distruzione causata, ma anche per poter smantellare i sistemi di guerra» lasciati sul terreno.
Ciò non significa che gli ultimi due decenni abbiano generato solo frutti negativi.

È un fatto, ad esempio, che la mortalità infantile tra i bambini afghani sia diminuita e che, al contempo, l’alfabetizzazione della popolazione sia complessivamente aumentata. Lo stesso dicasi per il ruolo e i diritti delle donne: più precisamente, di quelle residenti nelle principali aree urbane (oltre il 70 percento delle donne afghane vive in aree rurali). Eppure (anche) ognuno di questi aspetti è stato strumentalizzato e, a ben vedere, è più apparente che reale, quantomeno da un punto di vista diacronico.

I dati sovente proposti per sostenere la tesi del «progresso legato alla guerra» tendono infatti a comparare gli anni più recenti al quinquiennio tra il 1996 e il 2001, quando il Paese era sotto il giogo dello stato-terrorista talebano guidato dal mullah Omar e dal suo vice, nonché attuale vice primo ministro afghano, Abdul Ghani Baradar. Giova ricordare che quello stesso stato-terrorista venne riconosciuto da soli tre paesi al mondo (che, con Israele, sono gli alleati strategici di Washington nella regione): Emirati arabi uniti, Arabia saudita e Pakistan.

Più corretto sarebbe invece fare riferimento a periodi antecedenti al quinquennio 1996-2001, a partire al lungo regno (1933-1973) del sovrano Mohammed Zahir Shah, quando l’emancipazione delle donne afghane e il suffragio universale erano obiettivi perseguiti, nonché a portata di mano.

Dal globale al locale
È lecito a questo punto chiedersi a cosa stia andando incontro l’Afghanistan e, più in generale, la regione mediorientale. Una prima risposta può essere colta tra le righe di un articolo pubblicato lo scorso 19 agosto sul sito della CNN: «I Talebani», recita il titolo, «sono seduti su un trilione di dollari in minerali di cui il mondo ha disperato bisogno». Un titolo più onesto avrebbe sottolineato che l’Afghanistan (di cui i Talebani non sono un sinonimo) ha a disposizione un’enorme quantità di minerali, compreso il silicio necessario per i nostri PC e tablet, che fa gola a un ampio numero di paesi, a partire dalla Cina e dagli Stati Uniti.

D’altronde, come ha ricordato Robert Kaplan in un articolo dedicato alla débâcle di Washington in Afghanistan: «Checché se ne dica viviamo ancora in un’epoca imperialista, almeno metaforicamente». Le ricchezze naturali – che includono anche gli idrocarburi – e gli interessi che gravitano intorno ad esse contribuiscono a ricordarci che l’Afghanistan continuerà a essere al centro di enormi interessi e che anche Washington, attraverso «fondi umanitari» e altri strumenti, manterrà un ruolo significativo nel Paese.

Su un piano più regionale, va sottolineato che negli ultimi anni Israele si è trasformato in un fattore chiave tanto per gli Emirati arabi uniti quanto per altri paesi del Golfo persico (in farsi, Khalij-e Fars), i quali utilizzano la «carta israeliana» per aumentare la propria influenza regionale, limitare il ruolo di paesi come l’Iran e la Turchia e rafforzare le proprie relazioni con gli Stati Uniti. Il disimpegno militare di questi ultimi – che nei prossimi mesi coinvolgerà anche il contesto iracheno – spingerà l’Arabia Saudita e altri paesi del Golfo persico a compensare ciò che essi percepiscono come un deficit di sicurezza (a beneficio dell’Iran) con il rafforzamento di una serie di alleanze regionali, a cominciare dai controversi «Accordi di Abramo» siglati da UAE e Israele nell’agosto del 2020.

Si noti, per inciso, che alcuni, incluso l’ex presidente americano Donald Trump, non utilizzano l’espressione Golfo persico, bensì «Golfo arabo». Altri, tra i quali il presidente francese Emmanuel Macron, sono invece soliti chiamarlo «Golfo arabo-persiano». Entrambi i termini sono nati negli anni Sessanta del secolo scorso al fine di ridimensionare il ruolo dell’Iran nella regione, aumentando al contempo quello dell’Arabia saudita e di altri attori arabi strategici. L’espressione Golfo persico, tuttavia, è utilizzata da millenni. Anche le mappe arabe di epoca medievale lo indicano con il nome Khalij Al-Ajam. In arabo classico Ajam («straniero») indicava i «non-arabi» e, con il passare dei secoli, esclusivamente i persiani. Tutto ciò ci ricorda che il tentativo di limitare l’influenza iraniana nella regione passa anche per la toponomastica ed è radicato in un passato che, per molti versi, è ancora presente.

Last but not least: la dimensione locale. A questo riguardo è importante sottolineare che l’unica reale minaccia per i Talebani è rappresentata dal braccio afghano dello «Stato islamico» (Isis-Khorasan). Al-Qaeda, che può contare su un numero estremamente esiguo di adepti in Afghanistan, rappresenta per contro un alleato «naturale» dei Talebani, non ultimo per via di rapporti personali radicati in una storia ormai pluridecennale. Va comunque chiarito che, a differenza tanto di al-Qaida quanto di Isis-Khorasan, i Talebani sono radicati nella storia e nella cultura afghana e non hanno mai rivendicato alcun territorio esterno al Paese.

L’oltranzismo e l’oscurantismo che traspare nei primi giorni del ritorno al potere dei Talebani appaiono quelli di sempre: è probabile che, fatte salve alcune operazioni di facciata, la leadership del movimento continuerà a imporre una commistione tra le tradizioni pashtun locali e una visione fondamentalista della Shari’ah. A pagarne il prezzo saranno ancora una volta le diverse minoranze etniche del Paese, a cominciare dagli hazari (che, a differenza dei Talebani, sono sciiti) e dai tajiki, ma anche delle donne e dei bambini.

La produzione dei papaveri da oppio – da cui derivano anche eroina e morfina – resterà l’architrave delle loro strategie politico-finanziarie. Un rapporto dell’Onu del maggio 2001 attestò «il quasi totale successo nell’implementazione del divieto di coltivazione dell’oppio nelle aree controllate dai Talebani».

A partire dai mesi successivi, – dunque in concomitanza con l’invasione statunitense dell’Afghanistan – i Talebani riavviarono la produzione e finanziarono la loro insurrezione armata contro Washington quasi esclusivamente grazie ai profitti connessi all’eroina, il 95 percento della quale viene consumata in Europa. Gli attuali 120mila posti di lavoro garantiti dai traffici illeciti legati a queste sostanze rappresentano oggi una delle poche boccate di ossigeno per il regime talebano. Questa volta, almeno nel breve-medio periodo, non ci rinunceranno, così come non lo faranno i loro consumatori europei: è solo l’ultima delle innumerevoli nefaste conseguenze di una guerra sbagliata, che sin dagli albori parlava agli istinti delle persone, piuttosto che alle lezioni della Storia, alla ragione e alla coscienza.

*Il professor Lorenzo Kamel dell’Università degli Studi di Torino è Direttore, Research Studies, Istituto Affari Internazionali (IAI)