A volte la politica riserva sorprese, altre volte scopre un segreto di Pulcinella. Sembra questo il caso delle presidenziali afghane di cui ieri sono stati forniti, con cinque giorni di ritardo, i risultati preliminari che danno la vittoria ad Ashraf Ghani, il tecnocrate in odore di laicità che piace ai modernisti, alla gioventù colta e anche ai tradizionalisti che vedono in lui la continuità della reggenza pashtun. La contestata Commissione elettorale (contestata dal perdente appena dopo il voto del secondo turno) gli attribuisce il 56,44% dei voti contro il 43,56 del rivale, il campione tagico Abdullah Abdullah, che ha giocato la carta etnica assai più di Ghani, vecchio uomo di potere nel Nord e a Kabul, alleato con una pletora di islamisti locali distinti dai taleban – ideologicamente – forse solo per il colore del turbante.

In queste settimane c’è stato un gran lavorio, con la presenza, stavolta poco ingombrante, di un Karzai che ha fatto più da capo di Stato che non da padre padrone del Paese. I rumor dicono che la trattativa tra rivali è stata condotta sia sul fronte monetario sia su quello dei futuri incarichi e persino giocata su un possibile stravolgimento costituzionale che attribuisse a uno la presidenza e all’altro il premierato. Ma i giochi per ora non sono conclusi. Intanto c’è un accordo bilaterale per rivagliare i risultati di oltre 7mila seggi e poi chissà che altro ancora prima che si sappiano con certezza gli esiti definitivi. La Commissione ha dato anche i dati dell’affluenza del secondo turno: 60% con un 38% di voto femminile su 8.109493 di voti validi.

Anche se sembra profilarsi un accordo che alla fine metterà a tacere Abdullah e anche se, finora, le contestazioni del candidato nordista si sono limitate a manifestazioni di piazza e proclami senza che si sia passati dalla dialettica politica all’antico gioco delle armi, le presidenziali 2014 non ne escono gran bene. E gli afghani lo sanno, come lo sa la comunità internazionale, americani in testa, per i quali una sconfessione del processo elettorale equivarrebbe a una dichiarazione di fallimento generale il che ha fatto correre ai ripari le cancellerie con pressioni di ogni tipo per evitare uno scandalo sullo stile di quello che accompagnò la vittoria di Karzai nel 2009 quando anche quella volta – con brogli certificati dal numero due dell’Onu a Kabul – Abdullah gettò il sasso nello stagno della polemica per poi ritirare la mano – dicono i maligni – dopo un’offerta che non poteva rifiutare. Tant’è, anche giocando sulla stanchezza degli afghani, tutto sembra destinato a concludersi a tarallucci e tè e un tutti a casa che non lasci morti o feriti. «Un dramma afghano», come ci diceva giorni fa a Kabul un diplomatico. Un modo elegante per non dire melodramma, un’arte politico teatrale in cui anche noi italiani siamo maestri.