Tutti a casa dall’Afghanistan ma non solo i soldati. Via anche i civili il prima possibile da un Paese che evidentemente non dà garanzie. È il messaggio che l’Italia ha dato all’inizio del mese ai connazionali che lavorano in Afghanistan: se ci abitate andate a casa, se dovete tornarci evitate. Un invito che appare abbastanza stridente con quanto dichiarato dal capo della Farnesina a metà aprile mentre commentava il ritiro «epocale» dei soldati: «Non abbandoneremo mai il popolo afgano», aveva detto il ministro Di Maio.

Parole al vento se poi la nostra ambasciata spiega agli italiani che lavorano in Afghanistan che la nostra legazione sta «contattando i connazionali per invitarli a lasciare il Paese nell’aspettativa di una ulteriore compromissione di sicurezza a Kabul e nel Paese». Una valutazione a tinte fosche «condivisa anche da altre ambasciate» per cui «l’invito è a non fare ritorno in Afghanistan almeno temporaneamente». La valutazione su quella che viene ritenuta una nuova stagione di violenza, pur restando una considerazione del tutto opinabile che non sembra tener conto delle capacità dell’esercito e dell’esecutivo afgano, può ovviamente spingere un’ambasciata a mettere in guardia i propri cittadini. Ma invitarli ad andarsene e a non tornare proprio nel momento in cui il Paese ne ha più bisogno sembra davvero dimostrare che quanto si dice ufficialmente non è che un vocabolario di rito. Tanto più che questo messaggio è stato recapitato anche a membri di organizzazioni internazionali che hanno sia sistemi di sicurezza propri sia l’autonomia decisionale su cosa consigliare ai propri funzionari.

Quanto al futuro del Paese, l’Italia sembra associarsi al plotone di analisti-cassandra secondo cui il ritiro dei soldati si tradurrà in un aumento della violenza. Sembrano dimenticare che il ritiro delle truppe leva il nodo principale della guerra visto che questa si combatte soprattutto contro l’occupazione straniera, fatto che ha trasformato un manipolo di islamisti radicali in una formazione partigiana. Senza più un esercito straniero da combattere, i Talebani restano senza argomenti senza contare che l’esercito della repubblica è in grado di sbarrargli la strada, ammesso e non concesso che vogliano farlo, nella conquista delle città.

Il caos da temere non riguarda tanto i Talebani ma il vuoto che si creerà in un Paese finora assistito in ogni settore dagli occidentali. Se «non abbandoneremo gli afgani» come dice Di Maio, quel vuoto può essere riempito da un forte impegno civile a favore di sanità, istruzione, diritti e posti di lavoro. Se invece il futuro è il tutti a casa consigliato dai suoi emissari a Kabul il destino degli afgani appare già segnato.